Invito alla danza

Introduzione a ‘Una storia della gioia collettiva’

Barbara Ehrenreich

2024-03-13

traduzione di Elena Cantoni.

INDICE DEL LIBRO:

INTRODUZIONE Invito alla danza // CAPITOLO PRIMO Le radici arcaiche dell’estasi // CAPITOLO SECONDO L’avvento della civiltà e le sue ripercussioni // CAPITOLO TERZO Gesù e Dioniso // CAPITOLO QUARTO Dalle chiese alle strade: la creazione del carnevale // CAPITOLO QUINTO Uccidere il carnevale: riforma e repressione // CAPITOLO SESTO Nota su puritanesimo e riforma militare // CAPITOLO SETTIMO Un’epidemia di malinconia // CAPITOLO OTTAVO Fucili contro tamburi: l’imperialismo incontra l’estasi // CAPITOLO NONO Spettacoli fascisti // CAPITOLO DECIMO La rivolta rock // CAPITOLO UNDICESIMO La carnevalizzazione dello sport // CONCLUSIONI La possibilità di un ritorno // Bibliografia // Ringraziamenti

Quando gli europei intrapresero le proprie campagne di conquista ed esplorazione in quelli che ai loro occhi erano «nuovi» mondi, sorpresero i nativi impegnati in una quantità di attività bizzarre e scandalose. Si parlò di cannibalismo, sia pure raramente documentato in modo convincente, oltre che di sacrifici umani, mutilazioni, pittura del corpo e del volto, e consuetudini sessuali assolutamente sfacciate. Altrettanto sconvolgente per la mentalità europea era la pratica, quasi ubiqua, di rituali estatici in cui i nativi si radunavano a danzare, cantare o recitare inni fino a sfinirsi, raggiungendo a volte uno stato di trance. Ovunque andassero – tra i cacciatori-raccoglitori dell’Australia, gli orticoltori della Polinesia o gli abitanti dei villaggi indiani – gli uomini (e talvolta le donne) bianchi assistettero con una tale frequenza a questi riti elettrizzanti da concludere che «tra le società attuali dei selvaggi [esiste] una straordinaria uniformità […] a dispetto delle molte varianti locali di rituali e mitologie»1. L’idea europea di «selvaggio» finì per precisarsi nell’immagine di corpi dipinti e bizzarramente mascherati, di tamburi e danze scatenate alla luce di un falò.

Che cosa videro quei bianchi, in realtà? Lo stesso rito poteva apparire molto diverso a seconda dell’osservatore. Al suo arrivo a Tahiti, a fine XVIII secolo, il capitano Cook descrisse gruppi di ragazze che eseguivano «una danza davvero indecente, che chiamano timodoree, con i canti più indecenti, e i gesti più indecenti […] il tutto senza mai perdere il ritmo»2. Circa sessant’anni dopo, Herman Melville assistette al medesimo rituale, a quel punto chiamato lory-lory e forse modificato anche per altri aspetti, e lo trovò pieno di fascino sensuale:

D’un tratto, intonando una strana litania, cominciano a oscillare dolcemente su se stesse, accelerando per gradi il movimento finché alla lunga, per qualche istante appassionato, con i seni palpitanti e le guance accese, si abbandonano del tutto allo spirito della danza, come ignare di quanto le circonda. Presto però riprendono il ritmo languido dell’inizio, con gli occhi arrovesciati nella testa, intonano un unico coro selvaggio e cadono le une tra le braccia delle altre3.

Come il capitano Cook, anche Charles Darwin trovò ripugnante la cerimonia del corroboree presso gli abitanti dell’Australia occidentale, riferendo che

la danza consisteva nel correre lateralmente oppure in fila indiana su uno spazio aperto, pestando i piedi a tutta forza mentre marciavano insieme. Accompagnavano quei passi pesanti con una sorta di grugnito, battendo insieme le mazze e le lance e gesticolando in altro modo, ad esempio tendendo le braccia e scuotendo il corpo. Uno spettacolo estremamente rozzo e barbaro e, per la nostra mente, del tutto privo di significato4.

Per contro, agli antropologi Baldwin Spencer e Frank Gillen, un rito aborigeno analogo apparve di gran lunga più coinvolgente, forse persino seducente: «Il fumo, le torce fiammeggianti, questa pioggia di scintille, questo insieme di uomini che danzavano e urlavano, tutto ciò […] costituiva una scena tanto selvaggia che non è possibile renderne l’idea con parole»5. Fu questa descrizione a suggerire al grande sociologo francese Émile Durkheim il concetto di effervescenza collettiva: un trasporto o un’estasi indotti dal rituale che consolida i legami sociali e che, secondo la sua ipotesi, costituisce la base ultima della religione.

Con l’istituzione della tratta degli schiavi, gli europei d’America ebbero l’opportunità di osservare da vicino i «nativi» ridotti in schiavitù, e anche le loro testimonianze riportano reazioni diverse e contraddittorie davanti ai riti estatici degli africani sradicati. Molti bianchi della classe proprietaria di schiavi consideravano quelle pratiche «rumorose, rozze, empie e, semplicemente, dissolute»6, e adottarono misure severe per reprimerle. Nel XIX secolo, il padrone assenteista di una piantagione giamaicana sorprese i suoi schiavi in una danza myal, probabilmente derivata da un rito di iniziazione degli Ashanti dell’Africa, e li descrisse come impegnati «in una gran varietà di gesticolazioni grottesche, senza mai smettere di intonare qualcosa a metà tra un canto e un ululato»7. In modo analogo, un visitatore inglese a Trinidad, nel 1845, riferì disgustato che

la vigilia di Natale, e con la scusa della religione, sembrò scoppiato il Pandemonio. […] L’ubriachezza, che esplodeva in urla e baccanali orgiastici, era universale tra i neri. […] Dormire era impossibile, nel bel mezzo di saturnali tanto disgustosi e diabolici. […] I musicisti erano circondati da una moltitudine di ubriachi di ambo i sessi, le donne appartenenti alla classe più infima; e tutti ballavano, urlavano e battevano le mani come tanti demoni. Tutto questo era l’effetto della «messa di mezzanotte», terminata, come sempre in quei casi, in depravazioni di ogni genere8.

Ma poteva anche capitare che un osservatore bianco avvertisse suo malgrado la potente attrazione esercitata dai rituali e dai festeggiamenti di origine africana. Viaggiando a metà del XIX secolo, Frederick Law Olmsted assistette a una funzione cristiana dei neri di New Orleans e fu talmente trascinato dalle «urla, i gemiti, gli strilli altissimi, le indescrivibili espressioni di estasi – di piacere o agonia» da sentirsi la faccia «surriscaldata» e ritrovarsi a pestare i piedi a terra, come per un «contagio involontario»9. Clinton Furness, che visitò la South Carolina negli anni Venti del XX secolo, riferisce un’esperienza analoga durante un ring-shout afroamericano, una forma danzata di culto religioso:

Vari uomini cominciarono a muovere i piedi a turno, con un andamento stranamente sincopato. Ne nacque un ritmo, quasi privo di collegamento con le parole del predicatore. Sembrava quasi di vederlo sorgere e crescere. Fui colto dalla sensazione di un’intelligenza di massa, un’entità cosciente che gradualmente pervadeva la folla prendendo possesso di ogni mente, compresa la mia. […] Era come se un piano o uno scopo consapevole – chiamatelo come vi pare: mente della folla, composizione collettiva – ci stesse trascinando tutti10.

Nel complesso, però, gli osservatori bianchi reagivano ai rituali estatici dei popoli di colore con orrore e repulsione. «Grottesco» è un termine ricorrente nelle relazioni su quel tipo di eventi, come pure «orripilante». Henri Junod, un missionario svizzero del XIX secolo presso il popolo Ba-Ronga del Mozambico, lamentava lo «spaventoso baccano» e il «fracasso infernale» dei tamburi11. Altri missionari cattolici, al suono dei tamburi africani che annunciavano un evento rituale, si sentivano in dovere di intervenire per mettere fine a quella «pratica diabolica»12. Persino a inizio XX secolo bastò il suono dei tamburi a terrorizzare un viaggiatore bianco, quasi provenisse da un mondo non umano. «Mai in vita mia avevo sentito un suono più sinistro» riferisce un giovane viaggiatore inglese in Sudafrica, nel romanzo Prester John del 1910. «Né umano né animale, sembrava la voce di un mondo nascosto alla vista e all’udito dell’uomo»13. Nell’introduzione al suo libro del 1926 sulle danze tribali, lo scrittore W.D. Hambly implora i lettori di affrontare il tema con un po’ di «comprensione»:

Chi voglia studiare la musica e le danze primitive dovrà coltivare un atteggiamento comprensivo rispetto ai comportamenti delle razze arretrate. […] La musica e le danze scatenate, eseguite alla luce di un fuoco in una foresta tropicale, hanno non di rado suscitato condanna e disgusto nei visitatori europei, che ne hanno colto soltanto il grottesco o il sensuale14.

Oppure, in molti casi, l’osservatore poteva decidere di non vedere un bel niente: a inizio anni Trenta, quando batteva la Nuova Guinea in cerca di nuove specie d’insetti, l’intrepida entomologa Evelyn Cheesman non dimostrò la minima curiosità per i molti «terreni di danza» nativi da cui le capitò di passare. In un villaggio, gli abitanti chiesero a lei e ai suoi portatori di andarsene, perché quella sera ci sarebbero state una festa e una danza che erano tambu, ovvero vietate a occhi estranei. Cheesman si irritò per dover cambiare i suoi piani, ma si consolò pensando che «d’altronde è risaputo che non è granché desiderabile trovarsi in un villaggio sconosciuto quando i nativi si scatenano nella loro solita frenesia di culto del diavolo»15.

Particolarmente inquietante per gli osservatori bianchi era l’occasionale climax del rituale estatico, durante il quale alcuni o tutti i partecipanti, dopo un periodo prolungato di danza, canto o recitazione di inni, entravano in quello che oggi chiameremmo uno «stato alterato della coscienza», o trance. Le persone cadute in trance erano in grado di parlare con un’altra voce o persino in un’altra lingua, dimostrare un’impressionante indifferenza al dolore, eseguire contorsioni apparentemente impossibili nella vita ordinaria, schiumare dalla bocca, avere visioni, credersi possedute da uno spirito o un dio, e infine stramazzare a terra*. Un missionario tra gli isolani delle Fiji descrive questo stato di trance come «orribile a vedersi»16, anche se chi viaggiava nella regione avrebbe avuto qualche difficoltà a evitare di assistervi. Nel suo approfondito studio del 1963 sulla letteratura etnografica, l’antropologa Erika Bourguignon rilevava che il 92 per cento delle società di piccola scala praticava una qualche forma di trance religiosa, perlopiù ottenuta tramite un rituale estatico di gruppo17. Quello che segue è uno dei tanti resoconti di comportamenti di trance presso i popoli «primitivi», in questo caso osservato da un visitatore bianco in Polinesia e riferito dallo studioso tedesco di inizio XX secolo T.K. Oesterreich:

Appena il dio, secondo le credenze, entrava nel sacerdote, questi veniva colto da un’agitazione violenta, scatenandosi fino al picco più alto di una frenesia apparente, con i muscoli degli arti in preda a convulsioni, il corpo gonfio, l’espressione del volto spaventosa, gli occhi spiritati e strabuzzati. In questo stato si rotolava a terra, schiumando dalla bocca18.

Il sesso promiscuo era comprensibile alle menti europee, e persino i sacrifici umani e il cannibalismo avevano echi nei riti cristiani. Ma, come scrive l’antropologo Michael Taussig, «è la capacità di essere posseduti […] a significare per gli europei una Alterità spaventosa, se non addirittura l’animalità pura e semplice»19. La trance era l’obiettivo cui puntava gran parte di quei riti scatenati, ma per gli europei essa rappresentava per l’appunto il cuore di tenebra – un luogo al di là del Sé umano. O, peggio ancora, un luogo dentro al Sé. In Cuore di tenebra, il narratore di Joseph Conrad fa queste riflessioni mentre osserva un rituale africano:

Era terrificante e gli uomini erano… No, non erano inumani. Be’, voi sapete che è proprio questo il lato peggiore della cosa: il sospetto che non fossero inumani si affacciava a poco a poco. Quelli gridavano e saltavano e giravano su se stessi e facevano orribile smorfie; ma ciò che ti faceva rabbrividire era proprio il pensiero che appartenessero all’umanità – come voi – il pensiero di una tua remota parentela con questo frastuono selvaggio e appassionato. Brutto. Sì, era parecchio brutto; ma, se eri abbastanza uomo, dovevi confessare a te stesso che la sincerità spaventosa di quel rumore procurava in te un seppure vaghissimo riscontro, un confuso sospetto che racchiudesse un significato che tu – così lontano dalla notte dei tempi – potevi comprendere. E perché no? La mente dell’uomo è capace di tutto20.

Agli occhi degli europei, c’era un’ovvia spiegazione per le pratiche estatiche dei nativi in ogni parte del mondo. Posto che si potevano trovare quasi ovunque nelle culture «primitive», e che invece nessuno nel mondo «civile» si abbandonava mai a comportamenti simili, ne conseguiva che la loro origine fosse una qualche tara fondamentale della «mente selvaggia». Una mente meno equilibrata di quella civilizzata, più infantile, «plastica», e vulnerabile all’influsso dell’irrazionale o all’«autosuggestione»21. In alcuni casi veniva definita «fuori controllo», priva della disciplina e della moderazione che gli europei del XVII secolo e oltre finirono per considerare i propri tratti distintivi. In altri resoconti, il selvaggio appariva, al contrario, come eccessivamente sotto controllo – quello del proprio «stregone» – o come vittima della «psicologia delle folle»22. Il politologo americano Frederick Morgan Davenport arrivò al punto di suggerire una spiegazione anatomica per il comportamento bizzarro dei primitivi: a suo dire, disponevano di un «unico ganglio spinale» per elaborare gli input sensoriali e convertirli in risposta muscolare, mentre – ovviamente – la mente civilizzata aveva un cervello intero con cui valutare quei segnali e soppesare la corretta risposta fisica23. Da qui la suscettibilità del selvaggio alla musica trascinante e alle suggestioni visive dei riti religiosi della sua cultura – un vero peccato, perché «l’ultima cosa di cui avrebbe bisogno la razza negra, già superstiziosa e impulsiva di suo, è un’ulteriore sollecitazione delle emozioni»24.

Ma se ci riflettevano un po’ su, molti europei si rendevano conto che l’estasi di gruppo tanto comune tra i «nativi» aveva certi parallelismi anche in Europa. I missionari cattolici partiti dalla Francia dopo gli anni Trenta del XVIII secolo, ad esempio, dovevano senz’altro essere al corrente del culto «convulsionario», una pratica eretica originata a Parigi che presentava scene scatenate quanto quelle visibili tra i «selvaggi»:

Mentre la congregazione raddoppiava le preghiere e raggiungeva collettivamente il picco estremo dell’entusiasmo religioso, almeno uno tra loro cadeva di colpo in un’attività motoria incontrollata. […] Si dimenava a terra in preda alla frenesia, urlava, ruggiva, tremava e si dibatteva. […] In genere l’eccitazione e i movimenti disordinati, che potevano durare parecchie ore, si dimostravano altamente contagiosi, con alcuni convulsionari che sembravano servire da catalizzatore per l’avvio di varie forme di contorcimenti spasmodici anche negli altri25.

Catalogatori successivi del comportamento estatico «primitivo», come Oesterreich, identificarono un più ordinario omologo europeo degli sconcertanti riti «selvaggi» nella ben nota tradizione del carnevale, in cui persone normalmente contegnose si mascheravano, bevevano all’eccesso, danzavano tutta la notte e invertivano le norme sociali e l’ordine cristiano. «Bisogna ammettere», scrive Oesterreich, «che in alcune circostanze i popoli civilizzati dimostrano un alto grado di autosuggestionabilità. Come esempio potremmo citare la curiosa intossicazione psichica di cui in alcune località (ad esempio Monaco e Colonia) cade vittima un’ampia fetta della popolazione in un dato giorno dell’anno (carnevale)»26. I detrattori di questa festività tradizionale talvolta davano forza alla loro denuncia immaginando un incontro coloniale al contrario, con un «selvaggio» che esprimeva il proprio shock di fronte al comportamento dei partecipanti a un carnevale europeo. Nel 1805, ad esempio, uno dei fondatori della Società biblica di Basilea pubblicò un opuscolo intitolato: Conversazione di un ottentotto convertito con un cristiano europeo durante il Carnevale, in cui l’«ottentotto» concludeva che Basilea è in parte abitata da «barbari non convertiti». Alla fine del XIX secolo, un opuscolo analogo aveva per protagonista un «indù convertito» che, in visita a Basilea, confessava che i festeggiamenti scatenati della Fastnacht gli avevano rammentato «le feste e danze idolatre dei miei compatrioti rimasti pagani»[^27] (Weidkuhn).

Ma era tra i propri subalterni sociali che gli europei trovavano l’omologo più immediato del «selvaggio» straniero. Entro il XVIII secolo, scrive l’antropologa Ann Stoler, «si tracciarono forti parallelismi tra le vite immorali degli inglesi urbanizzati delle classi inferiori e dei contadini irlandesi da un lato e i ‘primitivi’ africani dall’altro»27. Gli inglesi vedevano somiglianze tra le proprie classi inferiori e i Nativi americani: «In Inghilterra vivono schiavi selvaggi tali e quali a quelli di laggiù»28. In modo analogo, un visitatore di metà XIX secolo della Borgogna, in Francia, commentò in tono caustico che «non serve andare in America per vedere i selvaggi»29. E chi erano le persone i cui baccanali carnascialeschi gettavano nel caos città intere in Germania, Francia, Inghilterra e Spagna? Nel XVIII e XIX secolo è probabile che si trattasse di contadini e dei poveri inurbati, con la gente perbene che faceva il possibile per restarsene in casa in quei giorni di pericolosa licenza.

Dunque, quando fece il suo ingresso nella mente colonialista europea, il fenomeno dell’estasi collettiva era contaminato da sentimenti di ostilità, disprezzo e paura. L’estasi di gruppo era un’esperienza dell’«altro»: i selvaggi o gli europei delle classi inferiori. Anzi, la capacità di lasciarsi andare, perdendosi nel ritmo e nelle emozioni del gruppo, era considerata in generale un tratto distintivo di «animalità» e alterità, il sintomo di una fatale debolezza della mente. Da testimoni inorriditi del rituale estatico, gli europei capirono ben poco dei popoli che incontrarono (e distrussero): delle loro religioni e tradizioni, delle loro culture e visioni del mondo. Tuttavia appresero, o si attribuirono con grande immaginazione, qualcosa di cruciale importanza su se stessi: che l’essenza della mente occidentale, e in particolare quella del maschio delle classi dominanti, era la capacità di resistere al ritmo contagioso dei tamburi, di rinchiudersi in una fortezza di ego e razionalità per difendersi dalla spontaneità selvaggia e seduttiva del mondo.

La scienza di fronte all’estatico

Con l’avvento delle scienze sociali, e in particolare dell’antropologia, dagli anni Trenta del XX secolo gli occidentali cominciarono a guardare le pratiche estatiche non occidentali in modo apparentemente più aperto. Parole come «selvaggio» e «primitivo» furono espunte dal lessico etnografico, insieme al concetto che gli individui un tempo bollati con quei termini rappresentassero una forma meno evoluta di Homo sapiens. Le scienze mediche non erano riuscite a individuare alcuna differenza nei cervelli degli ex primitivi in grado di spiegarne la diversità di comportamento; i colonialisti furono costretti a notare che il «selvaggio» di ieri era diventato il negoziante, il soldato o il domestico di oggi. Ora che l’umanità appariva sempre più come una famiglia di possibili uguali, gli occidentali dovettero ammettere che il comportamento estatico riscontrato nelle culture tradizionali non era il marchio di una «alterità» selvaggia ma l’espressione di una facoltà che, nel bene e nel male, poteva esistere in tutti noi.

Negli anni Trenta, gli antropologi cominciarono a definire i rituali delle società di piccola scala come funzionali, cioè in certa misura razionali. Gli esseri umani sono animali sociali, e forse sono i rituali, estatici o di altro tipo, a tenere unita una comunità. L’antropologia funzionalista, che raggiunse la piena fioritura negli anni Quaranta e Cinquanta, spiegava così molte attività dei popoli nativi prima considerate bizzarre: meccanismi per ottenere coesione sociale e generare un senso di unità. Gli americani cercarono di ottenere lo stesso risultato con i rituali patriottici e religiosi; l’unica differenza con i «nativi» consisteva dunque nell’approccio.

Tuttavia, e fino ai nostri tempi, persino gli osservatori più scientifici e comprensivi hanno avuto la tendenza ad affrontare i rituali estatici delle culture non occidentali con profondo disagio, o a non affrontarli affatto. Si avverte un chiaro disgusto nelle parole di Vincent Crapanzano quando, nel 1973, descrive i riti estatici delle fratrie hamadsha in Marocco. «A quel punto il suono dei tamburi cominciava a stordirmi» riferisce l’antropologo «e la musica dei ghita a irritarmi. L’afrore di tutti quei corpi surriscaldati, sudati e stretti insieme, era soffocante»30.

Oppure considerate il curioso silenzio nel celebre studio del «processo rituale» di Victor Turner. Forse più di qualsiasi altro antropologo di metà XX secolo, Turner riconobbe l’estasi collettiva come una facoltà universale, e la vide come un’espressione di quella che chiamava communitas, cioè l’amore e la solidarietà spontanei che possono sorgere all’interno di una comunità di uguali. In Il processo rituale ammise un iniziale «pregiudizio contro il rituale» e la tendenza a liquidare «il martellare dei tamburi rituali»31. Deciso a rimediare a questa trascuratezza, lanciò uno studio dettagliato dell’Isoma, un rito religioso del popolo Ndembu, che distinse in tre parti. Le prime due, che comportano la manipolazione di oggetti simbolici, vengono descritte con dovizia di particolari e sottoposte a un’esaustiva analisi strutturalista. Ma la terza e ultima, il Ku-tumbuka, o «danza festiva», che si può presumere fosse il fine e l’apice dell’intera faccenda, non viene più citata. A quanto pare Turner decise di saltarla a piè pari **.

Tipicamente si riconosce a Turner il merito di aver dato al comportamento estatico di gruppo – oltre a quello semplicemente spontaneo e indisciplinato – un suo posto legittimo nell’antropologia. Ma in realtà gli concesse solo una posizione periferica e di second’ordine. Per lui, l’aspetto cruciale di una cultura era la sua struttura, cioè in sostanza le sue gerarchie e le sue regole. Nell’ipotesi da lui formulata, la funzione del rito estatico era di impedire alla struttura di diventare troppo rigida e dunque instabile, offrendo uno sfogo occasionale sotto forma di eccitazione e festa collettiva. Ma soltanto uno sfogo molto occasionale. In base allo schema di Turner, le emozioni della communitas dovevano restare «liminali» o marginali, pena il rischio di un disfacimento sociale «rapidamente seguito dal dispotismo»32. Da cui l’irritazione che manifestò verso gli hippies della sua stessa cultura, quella americana di metà anni Sessanta, i quali, nelle sue parole, impiegavano «droghe per ‘espandere la mente’, musica ‘rock’ e luci psichedeliche […] per raggiungere uno stato di comunione ‘totale’ gli uni con gli altri», convinti di poter estendere «l’estasi della communitas spontanea» alla vita quotidiana33. Questa «fantasia edenica» appariva del tutto irresponsabile a Turner, il quale – apparentemente ignaro del fatto che molti di quegli hippies erano impegnati in attività di agricoltura di sussistenza e altre iniziative produttive – rammentava al lettore che bisognava pur procurarsi «il necessario per il soddisfacimento dei bisogni di base, come cibo, acqua e abiti». Ed echeggiando il pregiudizio convenzionale della cultura occidentale a favore dell’individualismo, aggiungeva che era sempre meglio conservare un certo «mistero di distanza reciproca» tra individui[^35](Ibid.).

Altri antropologi ricorsero alla psicologia per spiegare i riti stravaganti dei popoli non occidentali. Ciò che i viaggiatori europei e americani avevano visto come primitivismo adesso veniva interpretato come malattia mentale, forse persino di origine alimentare: Crapanzano si chiese se gli estatici Hamadsha non soffrissero per caso di carenza di calcio34. La diagnosi più frequente era però di isteria, un termine inventato per descrivere i sintomi nevrotici delle signore altolocate nella Vienna di fine XIX secolo, e ora spensieratamente applicato agli abitanti dei villaggi di Haiti, ai contadini dello Sri Lanka e a chiunque altro manifestasse comportamenti che sfidavano l’analisi razionale. Alfred Métraux, il rinomato etnografo della tradizione estatica haitiana del vodou, giudicava «i sintomi della fase iniziale della trance chiaramente psicopatologici. Corrispondono con esattezza, per i caratteri principali, alle descrizioni cliniche da manuale dell’isteria»35. E in un libro del 1981 sulle donne estatiche dello Sri Lanka, un altro antropologo dichiarava che «molte di loro sono, in senso squisitamente clinico, isteriche»36.

In senso molto sostanziale, la psicologia era inadeguata a sostenere l’onere che gli antropologi cercarono di addossarle. La nuova scienza puntava a una teoria universale dell’emotività e della personalità umane, ma le sue teorie erano integralmente derivate da studi delle varie compulsioni, fobie, tic e «nevrastenie» che affliggevano i ricchi delle città occidentali – disturbi che non sembravano avere alcuna controparte tra i «primitivi» nelle proprie terre native37. Ma la scienza psicologica non era solo vincolata ai propri limiti culturali: la sua enfasi sulla patologia precludeva in larga parte qualsiasi studio attento delle emozioni più piacevoli, compreso il tipo di gioia – culminante nell’estasi – che era il tratto distintivo di tanti rituali e cerimonie «nativi». Nel linguaggio psicologico che attiene a bisogni e compulsioni, le persone non ricercano il piacere in modo libero e autoaffermativo; semmai, sono «spinte» da impulsi molto simili al dolore. A tutt’oggi, e senz’altro per buoni motivi, la psicologia professionale continua a occuparsi quasi esclusivamente della sofferenza. Negli ultimi trent’anni, le riviste specializzate hanno pubblicato quarantacinquemila articoli sulla depressione, ma solo quattrocento sulla gioia38.

C’era un’unica forma di piacere che interessasse davvero agli psicologi, da Sigmund Freud in avanti: il piacere sessuale. Se le celebrazioni e i riti estatici dei «primitivi» fossero sfociate più spesso in atti sessuali, pubblici o privati, forse la psicologia li avrebbe trattati con minor disagio. La musica, l’eccitazione, la calca di corpi si potevano tutti intendere come afrodisiaci che permettevano alle persone di scrollarsi di dosso le inibizioni della vita ordinaria. E di fatto è così che molto occidentali scelsero di interpretare i rituali di cui furono testimoni: come spettacoli indecenti, lascivi, e senz’altro finalizzati al sesso.

È vero che alcuni rituali estatici comprendevano rapporti sessuali – perlopiù solo mimati – o quantomeno terminavano con le coppie che sparivano insieme nel buio. Il corroboree australiano, ad esempio, a volte comprendeva amplessi di natura intenzionalmente «incestuosa», cioè tra uomini e donne appartenenti a una medesima sotto-unità tribale, il che di norma è tabù. Ma persino in quel caso il sesso era solo una parte del rito, e niente affatto il suo climax, se mi passate il doppio senso. Più tipicamente, i rituali estatici erano faccende piuttosto caste, con donne e uomini di ogni età che seguivano copioni codificati, la cui funzione si potrebbe forse descrivere al meglio come «religiosa». La perdita di sé che i partecipanti perseguivano nel rituale estatico non passava attraverso la fusione fisica con un’altra persona ma attraverso una sorta di fusione spirituale con il gruppo.

In genere l’estasi sessuale avviene tra diadi, o gruppi di due, mentre l’estasi rituale dei «primitivi» emergeva tra gruppi che solitamente comprendevano trenta o più partecipanti. Grazie alla psicologia e all’inclinazione psicologica in generale della nostra cultura, noi occidentali disponiamo di un lessico piuttosto ricco per descrivere le emozioni che attraggono una persona verso l’altra – dalla più effimera delle attrazioni sessuali all’amore più totalizzante, fino alla forza distruttiva dell’ossessione. Viceversa manchiamo del tutto di un linguaggio adatto a descrivere e comprendere l’«amore» che può esistere tra decine di persone simultaneamente; ed è questo il tipo di amore che si esprime nel rituale estatico. Ciascuno a suo modo, il concetto durkheimiano di effervescenza collettiva e l’idea di communitas di Turner sono appunto tentativi di indicare una forma d’amore utile a creare gruppi più numerosi della coppia. Ma se l’attrazione omosessuale è l’amore «che non osa dire il suo nome», l’amore che lega le persone alla collettività non ha nome, punto. Communitas ed effervescenza collettiva descrivono aspetti o momenti dell’esaltazione comunitaria; ma non c’è un nome per l’amore – o la forza, o il bisogno – che induce gli individui a ricercare la fusione estatica con il gruppo.

Freud, il patriarca della psicologia occidentale, non aveva i mezzi o la volontà per gettare luce sulla questione. È lecito dubitare che abbia mai osservato, e tantomeno sperimentato, qualcosa di simile all’estasi collettiva. Ad esempio, era al corrente della tradizione europea del carnevale, ma la vedeva attraverso la lente dei pregiudizi tipici del suo ceto. In una lettera alla fidanzata, Martha Bernays, concordò con lei che il comportamento dei partecipanti di bassa estrazione sociale a una fiera di paese a Wandsbeck non era stato «né gradevole né edificante», in particolare se paragonato ai piaceri più accettabili e borghesi di «un’ora di conversazione con l’amata, accomodati insieme in salotto» oppure alla «lettura di un libro»39. Anche nel suo lavoro teoretico non trovava granché edificanti le emozioni che rendevano coeso un gruppo o, per usare il suo termine, una folla. Come scrive l’antropologo Charles Lindholm, Freud era affascinato dalla «assoluta e inebriante perdita di sé» che accompagna l’amore tra due individui, mentre «nel suo discorso sul gruppo l’enfasi resta sul senso di colpa, sull’ansia e l’aggressività repressa»40. Ciò che la gente trovava nella folla, secondo Freud, era l’occasione di sottomettersi a un capo che assumesse il ruolo edipico del padre nell’«orda primitiva» – uno «stregone», presumibilmente, o un demagogo.

Nella sua visione delle affinità umane, esisteva un’unica forma d’amore: l’amore erotico e diadico di un individuo per un altro. Era questo il problema che poneva ne Il disagio della civiltà: «Il contrasto tra civiltà e sessualità [deriva] dal fatto che l’amore sessuale è una relazione tra due persone, in cui un terzo può solo essere superfluo o inopportuno, mentre la civiltà si fonda su relazioni tra un numero ben maggiore di persone»41. Purtroppo per la civiltà, Freud non era in grado di immaginare un amore capace di unire le persone in gruppi più numerosi. Eros, disse, può unirci a due a due, ma «non è disposto ad andare oltre». Dunque l’esultanza di gruppo poteva essere soltanto una degenerazione dell’amore diadico dell’individuo trasferito sul capo; e pazienza se i gruppi estatici riscontrabili nel rituale «primitivo» spesso non includevano affatto un capo o alcuna figura dominante.

Ma l’incapacità della psicologia occidentale di capire il fenomeno dell’estasi collettiva era dovuta anche a un impedimento di natura più filosofica. Quasi per definizione, la psicologia si concentra sul sé individuale; le sue terapie puntano ad armarlo contro la forza delle emozioni irrazionali o represse. Ma il è in partenza un concetto provinciale, di gran lunga più significativo nella Cambridge o nella Vienna di inizio XX secolo piuttosto che nei remoti avamposti del colonialismo europeo del XIX secolo. Come osservato da Luh Ketut Suryani e Gordon Jensen, etnografi del rituale estatico balinese: «Il senso di esercitare il controllo sul proprio io è dominante e gode di altissimo credito nella personalità e nel pensiero occidentali. Questo tratto non è caratteristico dei Balinesi, le cui vite sono perlopiù controllate dalla famiglia, gli antenati e il soprannaturale»42.

Per la mente orientata all’«io» degli occidentali, qualsiasi forma di perdita di sé – salvo quella associata all’amore romantico – non poteva che essere patologica. Ed è così che la psicologia moderna tende a classificarla. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (quarta edizione), o DSM-IV, la guida psichiatrica standard alle malattie mentali, cita una condizione detta disturbo di depersonalizzazione/derealizzazione, che consiste nella sensazione di essere «distaccati (dissociati) dal proprio corpo o dai propri processi mentali, e di solito si accompagna alla sensazione di essere un osservatore esterno della propria esistenza»43.

Come osservato da Lindholm, il modello psicologico per comprendere l’estasi collettiva «è fortemente giudicante. Dà per scontato che il desiderio di perdita del sé debba essere il risultato di impulsi antisociali e regressivi dell’id»44. Quei praticanti esultanti e danzanti del rituale estatico potevano anche credere di entrare in comunione con gli dèi, di costruire legami solidali con la comunità o persino operare atti di guarigione. Ma agli occhi della psicologia occidentale, stavano solo manifestando i sintomi di una malattia.

Ci si potrebbe aspettare che la sociologia, che di prassi si occupa di gruppi superiori alla coppia, abbia qualche intuizione da offrire sul fenomeno dell’estasi collettiva. Ma laddove la psicologia trovava solo malattia e irrazionalità, la sociologia ha avuto la tendenza, almeno negli ultimi decenni, a esagerare verso l’estremo opposto, interpretando il comportamento di gruppo come un’impresa integralmente razionale e opportunistica da parte di ciascun partecipante. Le decine di articoli sociologici sul comportamento di gruppo pubblicati dopo gli anni Sessanta si concentrano quasi esclusivamente su faccende piuttosto aride come «la struttura del gruppo […], le sue modalità di reclutamento, la sua ideologia e le sue contraddizioni, i meccanismi attivati per garantire l’adesione, il mantenimento e l’evoluzione del gruppo all’interno di un dato contesto sociale»45. Tutto questo, ancora secondo Lindholm, non ci dà la minima percezione dell’«entusiasmo che si prova partecipando a un gruppo estatico». Un altro dissidente dalla visione convenzionale, il sociologo John Lofland, apostrofò così i colleghi a inizio anni Ottanta: «Chi di voi oggi parla seriamente di ‘folle estatiche’, ‘epidemie sociali’, ‘febbri’, ‘isterie religiose’, ‘entusiasmi appassionati’, ‘danze frenetiche e sbrigliate’?»[^48](Lofland.).

Tecniche estatiche

Appunto questa è la missione del mio libro: parlare seriamente del brivido largamente ignorato e forse incomunicabile provato in un gruppo che si è unito in modo intenzionale nella gioia e nell’esultanza. Non prenderemo in considerazione tutte le forme di comportamento di gruppo «irrazionale»: i panici, le manie, le mode e le attività spontanee «di massa» non sono di nostra competenza. Anche i linciaggi – o se è per questo le rivolte – possono generare un’eccitazione e un piacere intensi nei loro partecipanti, ma il nostro punto focale sarà piuttosto il tipo di eventi di cui furono testimoni gli europei nelle società «primitive» e richiamati nella tradizione del carnevale europeo. Non si trattava di esplosioni spontanee di «isteria», come certi europei tendevano a credere, e nemmeno erano occasioni per sospendere ogni inibizione o per «lasciarsi andare». Di fatto, i comportamenti che apparivano tanto «selvaggi» e incontrollati agli osservatori occidentali erano pianificati e organizzati in modo deliberato, e sempre soggetti a regole e aspettative culturali.

Gli occidentali che, in tempi successivi, studiarono i rituali indigeni con uno sguardo relativamente meno discriminatorio notarono, ad esempio, che le tempistiche di quei rituali e cerimonie erano tutt’altro che improvvisate. L’occasione poteva essere un cambio di stagione, un evento del calendario, l’iniziazione dei giovani, un matrimonio, un funerale o un’incoronazione; in altre parole, qualcosa che si poteva prevedere e organizzare con settimane o mesi di anticipo. Bisognava preparare cibi appropriati, realizzare costumi e maschere, esercitarsi in canzoni e danze. Si trattava di un impegno collettivo, il risultato di una pianificazione attenta e sensata.

In aggiunta, persino al culmine della presunta frenesia, il comportamento soggiaceva ad aspettative culturali che definivano il ruolo specifico dei sessi e dei gruppi anagrafici, fino a regolare persino la più «selvaggia» delle esperienze: la trance. In alcuni contesti festivi – cioè quelli che si possono intendere come relativamente secolari o ricreativi – la trance non si verificava, e nessuno se la aspettava. In altri, ad esempio i riti religiosi originari dell’Africa occidentale o i riti di guarigione dei !Kung, il raggiungimento dello stato di trance è accolto come un segno di status spirituale e perseguito con grande disciplina e concentrazione. Ogni rituale estatico, come compreso dagli etnografi arrivati dopo i colonialisti, era specifico di una data cultura, dotato di significati diversi per i suoi partecipanti e plasmato dalla creatività e dall’intelletto umani.

Ma anche tenuto conto delle varianti locali, esistono alcune somiglianze, o almeno alcuni ingredienti comuni, che si riscontrano nei rituali e nelle cerimonie estatiche di tutto il mondo e di ogni epoca. Come osservato da Turner, «ogni tipo di rito, cerimonia o festa è accompagnato da un abbigliamento, una musica, una danza, cibi e bevande specifici […] e spesso da maschere, pittura del corpo, copricapi, arredi e altari»46. Questi ingredienti – musica, danza, consumo di cibi, bevande o sostanze che alterano la mente, costumi e/o varie forme di decorazione, ad esempio la pittura del corpo e del volto – sembrano universali ***. Altri ingredienti comuni ma non universali, in particolare pertinenti a eventi più protratti nel tempo e più elaborati, comprendono processioni, riti religiosi che prevedono la manipolazione di oggetti sacri, gare atletiche o di altro genere, esibizioni teatrali e commedie tipicamente irridenti o satiriche47. Ma il nucleo centrale sono sempre le danze, il banchetto, la decorazione artistica del volto e del corpo.

Darwin non seppe attribuire alcun «significato» ai riti aborigeni di cui fu testimone, e di fatto non è facile identificare il senso di una manifestazione culturale di cui si è osservatori esterni. Gli esseri umani hanno impiegato la stessa costellazione di attività – danza, banchetto, costumi eccetera – per perseguire fini diversissimi tra loro. Alcuni di questi riti sono riconoscibilmente religiosi, nel senso che puntano a evocare la presenza di una o più divinità. Altri, come i riti !Kung, sono intesi dai loro partecipanti come finalizzati a una funzione medica, con o senza interventi divini. Altri ancora possono apparire «meramente» ricreativi, sempre che sia possibile applicare ad altre culture la distinzione occidentale tra religioso, taumaturgico e ricreativo. In linea di massima gli antropologi hanno pensato di sì, e hanno di conseguenza tracciato un confine tra rito e festa, in cui il primo ha finalità religiose o di guarigione, mentre la seconda è «un momento designato ritenuto pagano, ricreativo o destinato ai bambini»48. Tuttavia non è detto che questa distinzione tra rito e festa abbia sempre un senso per i partecipanti. Uno schiavo della Georgia ricordava che gli altri schiavi dicevano dei propri «raduni» religiosi – e vi prego di perdonare la resa paternalistica del parlato che prendo di peso dalla mia fonte – «a me mi piace andare in chiesa quanto a una festa»49.

In questo libro rispetterò per quanto possibile la distinzione antropologica tra rito e festa, ma l’enfasi sarà sul fenomeno in sé: le attività di gruppo – danza, banchetto e così via – e le emozioni che sembrano suscitare. Quale che sia il significato ufficiale del rituale – entrare in contatto con il divino, celebrare un matrimonio o prepararsi alla guerra – questa medesima costellazione di attività è stata impiegata di continuo per raggiungere il piacere, o persino l’estasi e la beatitudine collettiva. Perché queste attività e non altre? Torneremo sulla domanda nel prossimo capitolo, ma per ora la risposta più semplice è che queste attività funzionano. In millenni di sperimentazione, l’umanità ha scoperto quelle che, nella sua analisi dei riti sciamanici, lo storico Mircea Eliade definì tecniche dell’estasi.

L’impulso che ha determinato questo libro scaturisce da un senso di perdita. Se un tempo le cerimonie e i rituali estatici erano tanto diffusi, perché oggi ne restano così pochi? Se le «tecniche» dell’estasi rappresentano una parte importante del patrimonio culturale dell’umanità, per quale motivo le abbiamo dimenticate, ammesso che sia così? Affronterò queste domande da una prospettiva storica, ripercorrendo la lunga lotta condotta dai tempi antichi al presente contro i riti estatici. Abbiamo tutti una vaga consapevolezza del declino negli ultimi secoli delle società comunitarie, uno sviluppo che molti scienziati sociali hanno indagato a fondo. Qui ci occuperemo di una forma molto più acuta e intensa di piacere di quella sottesa alla parola comunità, con i suoi toni di intimità e socialità da cittadina di provincia. La perdita del piacere estatico del tipo un tempo regolarmente generato dai riti che impiegavano la danza, la musica e così via, merita la stessa attenzione che abbiamo accordato alla comunità, e andrebbe rimpianta allo stesso modo.

Nel mio caso, questo senso di perdita ha anche una dimensione personale. Sul fronte intellettuale, il libro che tenete tra le mani affonda le sue radici in un testo precedente: Riti di sangue, all’origine della passione della guerra. In quel volume indagavo il lato oscuro dell’eccitazione collettiva, espressa in riti come il sacrificio umano e la guerra. Nell’approfondire il genere di festa decisamente meno distruttivo trattato qui, ho ritrovato temi emotivi in cui mi ero imbattuta decenni orsono ai concerti rock, alle feste informali e agli «happening» organizzati. Immagino che anche molti lettori avranno riferimenti analoghi, religiosi o «ricreativi», che attengono all’argomento di questo libro e saranno dunque disposti a chiedersi insieme a me: se siamo dotati di questa capacità di estasi collettiva, per quale motivo la usiamo tanto di rado?


* L’antropologo Vincent Crapanzano definisce la trance come «una dissociazione totale o parziale, caratterizzata da mutamenti in funzioni come l’identità, la memoria, la percezione sensoriale e il pensiero. Può comportare la perdita del controllo volontario sui movimenti ed essere accompagnata da allucinazioni e visioni»; The Hamadsha, nota, p. 195.↩︎

** A un convegno su riti e festività tenutosi nel 2003 presso la Bowling Green State University, l’antropologo ghaniano Klevor Abo presentò un affascinante resoconto della festa Hogbetsotso del popolo Anlo-Ewe, con una particolare attenzione al modo in cui gli elementi del rituale ricreavano eventi storici. Quando, durante il dibattito seguito alla conferenza, io gli chiesi se il rito comprendesse musica e danze, gli brillarono gli occhi, e rispose che in effetti era proprio quella la sua parte preferita. Anzi, diede persino una breve dimostrazione della danza che accompagnava il rituale. Eppure, chissà come, quel particolare aspetto non gli era parso abbastanza importante da parlarne nel corso della conferenza.↩︎

*** Un altro antropologo afferma: «Il vocabolario della festa è la lingua delle esperienze estreme ottenute mediante i contrasti. […] Il corpo viene tramutato in un oggetto da agghindare, camuffare e mascherare. […] E, naturalmente, il canto, le danze e altre esibizioni sono parte integrante dei festeggiamenti, di nuovo con l’intento di espandere al massimo la coscienza. Tutti questi elementi concorrono allo spirito che tende a potenziare la vita, a estenderla appieno, che sta al cuore delle celebrazioni festive» (Roger D. Abraham, in Turner 1982, pp. 167-168). O, nelle parole di Richard Schechner, uno storico del teatro: «La danza, il canto, l’uso di maschere e costumi, il fatto di impersonare altre persone, animali o entità soprannaturali (o di venirne posseduti), di narrare storie, di rivivere la caccia […], di provare un copione e allestire un luogo e tempo speciali per la sua recita sono tutti elementi che coesistono da sempre con la condizione umana» (cit. in Garfinkel, p. 40).↩︎

Note all’Introduzione


  1. Citato in Oesterley, p. 2.↩︎

  2. Citato in Moorehead, p. 30.↩︎

  3. Citato in Ibid., p. 94.↩︎

  4. Citato in Ibid., pp. 128-129.↩︎

  5. Citato in Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, p. 278.↩︎

  6. Frey e Wood, p. 147.↩︎

  7. Citato in Ibid., p. 59.↩︎

  8. Citato in Cowley, pp. 40-41.↩︎

  9. Citato in Raboteau, p. 62.↩︎

  10. Citato in Murphy, p. 149.↩︎

  11. Citato in Oesterreich, pp. 140-141.↩︎

  12. Citato in Frey e Wood, p. 25.↩︎

  13. Buchan, p. 83.↩︎

  14. Hambly, pp. 16-17.↩︎

  15. Cheesman, p. 124.↩︎

  16. Citato in Oesterreich, pp. 285-286.↩︎

  17. Goodman, p. 36. Vedi anche Platvoet.↩︎

  18. Citato in Oesterreich, p. 286.↩︎

  19. Michael Taussig, Mimesis and Alterity. A Particular History of the Senses, Routledge, New York-London 1993, p. 241.↩︎

  20. Conrad, pp. 51-52.↩︎

  21. Oesterreich, p. 237.↩︎

  22. Street, p. 62.↩︎

  23. Davenport, p. 243.↩︎

  24. Ibid., p. 306.↩︎

  25. Kreiser, pp. 257-258.↩︎

  26. Oesterreich, p. 237.↩︎

  27. Stoler, p. 125.↩︎

  28. Citato in Kupperman, p. 107.↩︎

  29. Citato in Stoler, p. 124.↩︎

  30. Crapanzano, p. XIII.↩︎

  31. Turner, The Ritual Process, p. 7.↩︎

  32. Ibid., p. 129.↩︎

  33. Ibid., pp. 138-139.↩︎

  34. Crapanzano, p. 234.↩︎

  35. Citato in Castillo.↩︎

  36. Citato in Ibid.↩︎

  37. Sass, p. 362.↩︎

  38. Trish Hall, Seeing a Focus on Joy in the Field of Psychology, «New York Times», 28 aprile 1998.↩︎

  39. Citato in Stallybrass e White, p. 190.↩︎

  40. Lindholm, pp. 57-58.↩︎

  41. Freud, Civilization and Its Discontents, p. 64 [Il disagio della civiltà].↩︎

  42. Suryani e Jensen, p. 173.↩︎

  43. https://www.msdmanuals.com/it/professionale/disturbi-psichiatrici/disturbi-dissociativi/disturbo-di-depersonalizzazione-derealizzazione.↩︎

  44. Lindholm, p. 66.↩︎

  45. Ibid., p. 70.↩︎

  46. Turner, Celebration, p. 12.↩︎

  47. Vedi, ad esempio, Beverly J. Stoelje, «Festival», in Bauman, pp. 264-266.↩︎

  48. Ibid., p. 262.↩︎

  49. Citato in Raboteau, p. 223.↩︎