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Prefazione a Critica della democrazia occidentale

Critica della democrazia occidentale

Graeber

Cartaceo 13,30 € E-book 4,99 €
lun 22 gen 2024

 

INDICE DEL LIBRO:

PREFAZIONE di Stefano Boni
Note alla Prefazione
Introduzione
CAPITOLO PRIMO L’incoerenza del concetto di «tradizione occidentale»
CAPITOLO SECONDO La democrazia non è stata inventata
CAPITOLO TERZO Sull’emergere dell’ideale democratico
CAPITOLO QUARTO Il processo di recupero democratico
CAPITOLO QUINTO La crisi dello Stato
Note
Bibliografia

La fecondità della critica si nutre dell’ipocrisia delle verità consolidate, sorrette dalle istituzioni, irradiate dai mass media, imposte dal mercato. Viviamo in una fase storica in cui comincia a incrinarsi un ordine costituito che ha generato consenso per decenni, un consenso che si è espresso nell’adesione ai partiti e nell’apatia, nel consumismo, nell’accettazione della devastazione ambientale, nell’inserimento degli animali nella catena di montaggio industriale e nella credenza diffusa della superiorità dell’Occidente modernizzato, detentore e propagatore di giustizia e verità, legittimato, quindi, a seminare guerre (umanitarie) in giro per il globo; legittimato, prima, a fermare con violenza chi, nato altrove, voleva condividerne l’apparente benessere; legittimato, poi, a sfruttare a piacimento quelli che riuscivano a superare le angherie e i soprusi di burocrati, poliziotti e carcerieri. Nel corso degli ultimi anni il malessere, la devastazione, la solitudine, la miseria, l’esclusione, la censura, le menzogne generate dall’andamento prevalente sono diventate sempre più chiare. Si è percepito in maniera più evidente che le promesse, di benessere, di prosperità, di futuro migliore, di salvaguardia dei diritti, di cessazione della violenza, sono state tradite. Sempre meno persone, soprattutto nelle fasce di età non senili, credono alle soluzioni proposte da questo intreccio sempre più indistinguibile di un’unica casta, composta da politici e faccendieri, da proprietari di mass media e facce televisive compiacenti, da gestori delle risorse finanziarie e grandi imprenditori.

Una delle menzogne che ci è stata spacciata con più tenacia nel corso dell’età contemporanea è che la società odierna è caratterizzata dall’eguaglianza e dalla sua espressione politica, la democrazia. I libri di storia esaltano Atene e, a distanza di qualche millennio, l’instaurarsi del potere parlamentare. Si celebra l’Occidente come patria dell’eguaglianza e dei diritti universali. Nelle aule di giustizia viene apposto lo slogan a cui dovrebbero credere gli imputati: la legge è uguale per tutti. Eppure mai come oggi la gente è depotenziata nel suo agire politico. Le forme di azione diretta, che in diversi contesti storici geograficamente dispersi hanno assunto forma insurrezionale, nell’Occidente contemporaneo sono state criminalizzate e perseguitate con successo e crescente minuzia. La potenzialità politica, frutto del coinvolgimento in prima persona, viene sempre più ristretta, resa difficilmente praticabile dall’aumento progressivo di ciò che viene reso criminale; da norme che permettono maggiore facilità nelle perquisizioni; dall’utilizzo sempre più massiccio di uno strumentario investigativo capillare: le nuove tecnologie di controllo utilizzate dai fautori del rispetto della legge spaziano dalle intercettazioni ambientali a quelle telefoniche, da ricerche su internet alle telecamere onnipresenti, dall’utilizzo del dna alla possibilità di localizzare le persone tramite i loro cellulari. In pratica, se fino a qualche decennio fa per essere perseguito per un reato commesso durante una manifestazione dovevi tendenzialmente essere catturato nel corso dell’evento, oggi arrivano centinaia di denunce a mesi di distanza mediante meticolosi processi di identificazione. Rimangono nella legalità solo azioni dal peso politico ridotto, ininfluenti al dispiegarsi del potere: le manifestazioni pacifiche e i comizi, sempre meno frequentati; la partecipazione ai partiti, che desta scarso interesse; le petizioni e le raccolte di firme.

Se la cittadinanza è stata privata di potere politico reale, la democrazia elettorale rivela con nettezza le perverse logiche del suo funzionamento. Le critiche teoriche alla delega si rendono oggi manifeste nella sclerotizzazione della classe politica, un manipolo di persone; negli organi direttivi dei diversi partiti, che mantengono la propria posizione di dominio da decenni; nell’omogeneità delle posizioni parlamentari, con governi diversi che attuano le stesse politiche; nella distanza tra marketing politico e vita vissuta; nella preoccupazione primaria di spartirsi i soldi degli appalti, le poltrone, le leggi a propria tutela; nell’occupazione monopolistica dello spazio mediatico da parte dei politici o dei loro portavoce; nella sottomissione dei politici alle volontà dei grandi gruppi finanziari ed economici, che richiedono la progressiva mercificazione dell’ambiente, la privatizzazione dei servizi, la chiusura di ciò che è pubblico, autogestito, gratuito, di tutto ciò che non è riducibile al loro controllo.

Si è misurata statisticamente la crescente diseguaglianza economica con la concentrazione di salari, rendite e patrimoni in certe imprese, famiglie, caste, paesi, settori. Non è quantificabile, ma è percepibile chiaramente, anche la crescente diseguaglianza politica, l’estrema differenza nell’esercizio di influenza tra chi comanda, plasma e gestisce le dinamiche sociali, chi decide quali trasformazioni sponsorizzare e quali marginalizzare, e la cittadinanza, stragrande maggioranza, che semplicemente subisce condizionamenti, leggi, tagli, discorsi, privata non solo della possibilità di alterare le dinamiche complessive della direzione intrapresa, ma scippata anche della capacità di espressione pubblica e in molti casi dello stesso immaginario di una società più umana.

La sedicente democrazia contemporanea è solo la forma politica della strutturazione odierna della diseguaglianza, di una diseguaglianza sempre più pervasiva che colpisce nell’intimo le persone. È una democrazia che ha usato una dose relativamente contenuta di violenza al proprio interno solo perché ha elaborato mezzi di controllo (televisione, consumismo, lavoro salariato, comodità, svago, burocrazia onnipresente, persecuzione giudiziaria) che non hanno, per ora, richiesto azioni coercitive eclatanti. La questione democratica, liberata dalla retorica dei politici e dalle verità auto-glorificanti dei saperi europei, diventa semplicemente la questione di come si distribuisce il potere, la capacità di condizionamento, all’interno di un circuito sociale.

Democrazia significa potere del popolo, ci ricorda David Graeber, inteso come forza anche violenta. La sua caratteristica rilevante dovrebbe essere – in confronto con altri sistemi politici (dittatura, monarchia, oligarchia, teocrazia) – l’ampia distribuzione del potere suggerita dalla nozione di popolo. In questo senso (che è quello sposato da Graeber), la democrazia può essere intesa come un’istituzione politica egualitaria che si confonde con la nozione di anarchia, definita come «assenza di capi»1; ovvero, una configurazione diffusa del potere, distribuito in maniera tendenzialmente egualitaria tra le persone, ognuna delle quali portatrice di parola pubblica, di istanze, di volontà, che vanno considerate e rispettate nelle decisioni collettive2. Ricondurre la nozione di democrazia alla sua forma assembleare, orizzontale, inclusiva, permette all’autore di smascherare sia i meccanismi gerarchici delle auto-proclamate democrazie contemporanee, sia i processi di mistificazione selettiva attivati da queste per darsi una profondità storica e una determinata connotazione identitaria: il revival democratico europeo a partire dal XVIII secolo sceglie l’Atene classica come mito fondativo delle istituzioni politiche occidentali.

Nella sua forma odierna, la democrazia è fondata sulla delega elettorale, e di conseguenza l’eguaglianza si concretizza, e si estingue, nel voto, diritto di ciascun cittadino; un’eguaglianza selettiva, ristretta agli elettori, che esclude i migranti e, spesso, i figli di questi, anche se nati in Italia. Inoltre, il voto non dà alcuna garanzia di una concreta distribuzione del potere in una società. Il voto, ma anche i gusti, lo stile di vita, le credenze, possono essere, se non prodotti a piacimento, fortemente condizionati, plasmati e modellati, facendo dialogare sui media le aspirazioni personali con le offerte partitiche, tese a sollecitare immaginari di identificazione tra votante e icona televisiva. Cosa c’è di democratico in un sistema in cui i messaggi pubblicitari di natura esclusivamente estetica e simbolica, se ben pensati e irradiati con sufficiente insistenza, muovono centinaia di migliaia di voti? Di democratico, oggi, rimane solo la vuota retorica del coinvolgimento elettorale popolare; in realtà comanda un’oligarchia non dichiarata che muove i fili del formidabile armamentario tecnico odierno, sorretta dalla compiacenza dei tecnici e dall’apatia diffusa.

Per comprendere il proprio ordinamento sociale, religioso o, nel nostro caso, politico, conviene abbandonare le verità propagandate e attivare un esercizio antropologicamente proficuo, forse una delle risorse più preziose trasmessaci dall’antropologia universitaria: confrontare il nostro vissuto con quello praticato altrove o esperito in passato. Quali sono allora i contesti in cui gli antropologi hanno riscontrato la maggiore eguaglianza nella distribuzione del potere, e quindi – nell’accezione sposata da Graeber in questo saggio – quali sono stati i circuiti culturali più democratici?

La documentazione archeologica, storica ed etnografica disponibile indica che le società di cacciatori e raccoglitrici, sole forme organizzative umane fino alla diffusione dell’agricoltura, distribuivano il potere in forma tendenzialmente egualitaria. Vivevano prevalentemente in piccoli gruppi, differenziati al loro interno per personalità, inclinazioni, gusti, competenze, senza avere alcun potere politico costituito. Quando era identificabile un capo (ma il termine tradisce una concezione gerarchica della società), questo era spesso una figura dedita alla mediazione, all’oratoria, al coordinamento. Ci sono numerosi esempi di società pastorali fortemente egualitarie, alcune dotate di sistemi e tecniche assembleari complesse ed efficaci: la politica in queste società può essere intesa come momento e spazio, più o meno formalizzato, lasciato alla parola pubblica, finalizzato a informarsi e a prendere decisioni. Finché non si istituisce un ambito politico scisso dal sistema sociale, come nel caso delle società fin qui descritte, possiamo parlare di democrazia diretta, ovvero di una democrazia priva di deleghe o con deleghe contenute, verificabili, momentanee. Nella letteratura si hanno raramente accenni a forme di burocratizzazione (praticamente nessuna delle società cui faccio qui riferimento era dotata di scrittura) o al ricorso al voto: lo scopo era piuttosto il raggiungimento del consenso, la convergenza precaria verso un sentire comune. Essendo contesti in cui non viene riconosciuta la legittimità della coercizione, l’influenza del singolo o di certi settori sociali può essere esercitata anche nella forma di autonomia, espressa nel rifiuto di aderire alle decisioni collettive, negando la partecipazione a lavori comunitari, allontanandosi da dinamiche indesiderate, passando dalla parola al confronto violento. La mediazione, infatti, a volte non funziona, e sono documentati in diverse società a potere diffuso sporadici e contenuti momenti di violenza nella forma di faide o di scontri tra bande3. Le società nomadi dedite alla raccolta e alla caccia sono state gradualmente soppresse, prima con l’allargamento delle società sedentarie, poi con l’affermazione degli imperi classici, e infine via via che porzioni sempre maggiori del globo venivano sottomesse ai poteri centralizzati, in genere fondati sull’agricoltura intensiva, fino allo sterminio quasi completo delle popolazioni di interi continenti (Nord e Sud America, Australia). Politiche di sedentarizzazione sono ancora in corso per gli sparuti gruppi che persistono nella difesa del proprio stile di vita.

La tensione verso la diseguaglianza, soprattutto quella legata al genere e all’anzianità, è una minaccia costante dell’egualitarismo: l’esclusione o la marginalizzazione delle donne e dei giovani da alcuni ruoli o dalla partecipazione al contesto assembleare non è estranea a molte società di pastori, raccoglitrici e cacciatori. A queste diseguaglianze si è affiancata, in alcuni contesti, la progressiva istituzionalizzazione del potere politico, ovvero la creazione di una sfera, sempre più impermeabile ai voleri generali, che elabora forme decisionali che soppiantano quelle a potere diffuso. L’affermazione del potere concentrato, spesso nella forma di apparati statali, è frutto di innumerevoli, mutevoli e contraddittorie dinamiche locali, con irriducibili specificità. Eppure, nel complesso la concentrazione del potere nelle istituzioni segue una direzione identificabile: il governo si costituisce come ambito separato, dotato di una simbologia propria, di forme retoriche appropriate, di spazi adibiti alla sua ostentazione e al suo esercizio, di persone, adeguatamente adornate, che si distinguono in quanto detentori della facoltà di comandare.

Le forme che prende la centralizzazione del potere e le dinamiche generate da tale accentramento sono molteplici e ci vengono insegnate a scuola come il progresso della civiltà. La caratteristica che le accomuna, dagli imperi classici alle sedicenti democrazie contemporanee, è una visione ontologica dell’umanità fondata sulla diseguaglianza piuttosto che sulla differenza e sulla orizzontalità. La differenza tra democrazia diretta e democrazia per delega rivela proprio una diversa concezione delle capacità dei singoli e delle comunità autogestite: all’apice di un sistema politico separato dal corpo sociale operano sovrani, dittatori, papi, presidenti, parlamentari per conto della massa, ritenuta non in grado di esercitare direttamente un’influenza benefica, di garantire la propria sicurezza, di organizzarsi, di diventare prospera, di stabilire i propri canoni morali. In questo senso, quindi, la sedicente democrazia contemporanea mente quando si afferma democratica ed egualitaria, in quanto la sua ideologia costitutiva è fondata sulla diseguaglianza tra chi decide e chi no.

Eppure, ci dice Graeber, e lo documenta con un ampio corredo di esempi storici ed etnografici, sono esistiti, dentro ma soprattutto ai margini degli Stati, circuiti democratici, intesi dall’autore come egualitari, con istituzioni politiche orizzontali e polifoniche spesso innestate nella vita sociale. La loro collocazione – e questa è una delle tesi di fondo del testo di Graeber – è spesso negli spazi interstiziali, caratterizzati da una significativa ibridazione culturale e capaci di ritagliarsi una certa autonomia (talvolta lasciata loro), che li rende parzialmente liberi dal controllo degli Stati centralizzati. La tensione tra circuiti egualitari e Stati è ormai ben documentata dai lavori di Scott4. Nel complesso emerge un quadro di molteplici forme di resistenza, di un momento o di secoli, finalizzate a conservare minime o massime autonomie dai condizionamenti dei centri del potere. Ovviamente ad affermarsi è stato l’ordine del mercato e del profitto, dello Stato rappresentativo e della megalomania legislativa, con le sue legittimazioni ideologiche che pervadono i media e i libri di storia. La democrazia diretta è dunque sopravvissuta, come ci dice Graeber, «in quegli ambiti dell’attività umana verso cui Stati o imperi nutrono scarso interesse» (infra p. 94). L’ordine statale è diventato prevalente, si è affermato man mano che ha soffocato le diversità culturali, si è dispiegato sempre più su scala globale grazie agli strumenti di sopraffazione militare, economica e ideologica di cui è dotato, grazie al disumanizzato perfezionamento tecnico nei vari campi. Ma, come spiega Graeber, di democratico le «forme repubblicane di governo», ovvero le istituzioni politiche degli ultimi secoli, non hanno nulla, si sono solo «appropriate del nome» (infra p. 100).

Negli ultimi decenni la democrazia rappresentativa si è affermata come unica espressione politica legittima, istituzionalizzata e pacificata, coreografica nelle manifestazioni di piazza, decisiva negli intrighi di palazzo. E ha estinto progressivamente le altre forme di potere comunitario, in particolare quelle orizzontali. Nei territori colonizzati sono state perseguitate fino all’estinzione culturale, e in alcuni casi fino allo sterminio fisico, le popolazioni che erano caratterizzate da prassi egualitarie più o meno radicate e diffuse. All’interno delle società governate direttamente dall’agglomerato di interessi di politici, burocrati, banchieri e imprenditori sono stati estirpati i semi della democrazia diretta. Nella sfera economica, la concentrazione finanziaria ed economica ha costretto al lavoro salariato in contesti gerarchici, estinguendo le forme artigianali e contadine, il lavoro familiare e l’auto-sussistenza. Nella società, le forme assembleari si sono progressivamente inaridite tramite l’istituzionalizzazione, la burocratizzazione e lo svuotamento del potere effettivo che l’assemblea riesce a esercitare. Questa dinamica si è manifestata nello svuotamento delle lotte sindacali dell’ultimo secolo e nel ruolo residuale che hanno le riunioni di condominio o dei genitori a scuola5. Altre dinamiche culturali tendenti all’egualitarismo, quali i rapporti di vicinato, di mutuo appoggio o i lavori comunitari, quanto meno più orizzontali di ciò che le ha sostituite, sono state soppresse dal «progresso».

In pratica le forme di democrazia diretta sono state inaridite e private di significato; e man mano che scompaiono le forme concrete di gestione assembleare tende a scomparire non solo il suo immaginario, ma le competenze pratiche per far funzionare la democrazia diretta. L’individualizzazione generalizzata e la disabitudine a confrontarsi in contesti pubblici orizzontali, infatti, genera frequentemente l’incapacità di concepire e, ancor più, praticare il potere assembleare. Nei casi in cui emergono decisioni collettive prese in forma orizzontale si è privi di legittimazione istituzionale e spesso non si riesce a pretendere che la deliberazione dell’assemblea venga implementata. Di fronte a resistenze gerarchiche e istituzionali, o, se si insiste, alle attenzioni poliziesche e giudiziarie, l’assemblea rinuncia al suo potere. I circuiti egualitari che ostinatamente cercano di concretizzare le loro volontà tramite l’azione diretta, ovvero «insistere, in situazioni in cui ci si trova di fronte a strutture di autorità ingiusta, ad agire come se si fosse già liberi»6, sono tentativi sistematicamente criminalizzati e, per ora, abbastanza marginali nel complesso della società italiana. Nella loro forma prevalente le assemblee, svuotate della consequenzialità e della pregnanza, della polifonia e della spontaneità, sono spesso considerate fastidiosa routine. Il trionfo della democrazia rappresentativa si è costituito sulla progressiva sparizione della diversità politica, e quindi della possibilità politica.

Nell’indubbia egemonia del neoliberismo parlamentare si sono intravisti negli ultimi anni, dopo decenni di progressivo arretramento delle forme di democrazia diretta, tendenze che destano interesse. Da un lato, prende piede nel corpo sociale una consapevolezza dei limiti della democrazia rappresentativa; questo malessere si allarga e travalica i settori usuali di scontento cronico (emarginati, devianti, anarchici) e coinvolge amplissimi settori giovanili (da intendersi perlomeno sotto i trenta), il ceto medio privato di redditi e prospettive, chi assiste attonito a una devastazione ambientale senza scrupoli, chi si indigna di fronte alla gestione personalistica del potere. La disillusione verso le istituzioni politiche nasce, si potrebbe argomentare, proprio negli spazi interstiziali, ibridi e marginali, e quando si organizza tende ad assumere una forma democratica diretta ed egualitaria, riproponendo come logica operativa, seppur con tutte le specificità contestuali, le forme documentate da Graeber in altri contesti geografici e storici.

Questi tratti suggeriscono una proposta politica condivisa da ampi settori della galassia libertaria: a) moltiplicare e consolidare le zone marginali recuperate o costituite; b) consolidare, in tali contesti, i processi di democrazia diretta (diffusione di assemblee pubbliche orizzontali, circuiti economici, residenziali, ludici, studenteschi gestiti tramite un potere diffuso); c) favorire e valorizzare le pratiche di ibridazione; d) mirare a una riformulazione culturale complessiva, non a una lotta rivoluzionaria di breve periodo. Le emergenti proposte politiche libertarie si possono quindi osservare da due prospettive, prese in esame di seguito: la trasformazione del corpo sociale, con tempi lunghi; le forme assunte dalle mobilitazioni nelle manifestazioni ed espressioni pubbliche, di piazza, eclatanti.

In questa fase storica, gli spazi sociali di disagio, dopo decenni di sostanziale egemonia del cittadino consumatore, si moltiplicano e in molti casi affermano una vocazione sinceramente democratica. I tentativi di superare l’individualismo neoliberista si esprimono in molteplici forme che vanno dall’occupazione di edifici alla costituzione di collettività rurali; da luoghi di ritrovo e di festa periodici a zone almeno parzialmente o temporaneamente liberate, come la Val di Susa. Nel mondo studentesco nascono collettivi, nella società più ampia associazioni egualitarie. Nell’analisi delle trasformazioni in atto nella società, oggi non ci si può limitare a porre l’attenzione sulle forme più coerenti e avanzate, perché queste si nutrono di dinamiche che coinvolgono ampi settori del corpo sociale, in cui si consolida la messa in crisi della credenza nel messaggio prevalente e quindi uno sguardo sempre più critico e disincantato nei confronti delle istituzioni.

In certi settori sociali, la fiducia nell’informazione dei potenti è chiaramente esaurita. Man mano che passano le stagioni, sta cambiando la reazione degli attivisti nei confronti dell’oscurantismo e della criminalizzazione mediatica. Da un clima di generale sconforto, dovuto all’incapacità di riuscire a far breccia nei flussi mediatici ufficiali (TG, quotidiani, radio), che spesso si traduceva in interminabili girotondi di parole su come rendersi più «accattivanti», su come eludere certe estetiche e pratiche tacciabili di aggressività, ora una parte significativa delle mobilitazioni italiane è passata a una nuova fase di consapevolezza critica. I movimenti diffidano della «società dello spettacolo» che li vorrebbe ingabbiare nella rappresentazione mediatica e quindi allontanano, anche violentemente, i giornalisti dei grandi media. Non si spreca più tempo a cercare una visibilità mediatica ufficiale, ma ci si affida a gesti minuti e ordinari. Ordinari appunto, perché lo straordinario lo si lascia evocare alle televisioni che, nel giro di qualche giorno, lo gonfiano e lo sgonfiano a piacimento. Le informazioni circolano quotidianamente su reti autonome e orizzontali tramite sistemi di condivisione selettiva in cui si agisce sia da generatori di informazione, sia da utenti di quelle offerte da altri. Cominciano a esserci ampi settori giovanili immuni alla propaganda mediatica. La circolazione delle informazioni prodotte dalle mobilitazioni contemporanee (video, verbali di riunioni, dichiarazioni di intenti, cronache delle azioni intraprese, consigli ai manifestanti) è autogestita e prescinde dai canali mediatici istituzionali. Chi non c’è può aderire, partecipare e confrontarsi in rete. Proliferano siti aggiornati ed esaustivi che informano con precisione e trasparenza sulle mobilitazioni in corso. È un’informazione polifonica e plurale sia come quantità di siti, sia come partecipazione all’interno di questi: un’informazione di qualità, quantità, trasparenza, varietà, chiaramente superiore a quella mediatica che appare sempre più retorica, manipolata, faziosa, acritica, falsa, stantia. E che viene quindi abbandonata.

Il mancato consenso nei media nutre una più ampia critica delle istituzioni. Nell’autunno 2010 gli studenti assediano i palazzi parlamentari in due circostanze: in un’occasione sono fermati sulla soglia, nell’altra è necessaria la militarizzazione capillare del centro di Roma. Dopo decenni di settarismo partitico-associazionista, gli studenti universitari tendono a mobilitarsi senza accettare direttive, simboli e affiliazioni istituzionali, rivendicano piena autonomia e tengono a distanza potenziali leader e manipolatori. Negli ultimi mesi, diversi esponenti del mondo istituzionale, dai ministri ai sindacalisti, che prima occupavano quello che era sempre stato il comodo palcoscenico mediatico degli incontri istituzionali, hanno invece dovuto affrontare la rabbia di una parte della platea, pronta a sfidare il personale interno agli eventi e quello pagato dallo Stato per cercare di prendere la parola pubblica (ma non si può) o, semplicemente, per rovinare la passerella al potente di turno. La critica ai palazzi istituzionali è a tutto tondo: si entra nella Borsa di Milano così come si protesta alla Scala, si blocca il traffico e si occupano edifici e monumenti. Le reazioni saccenti, sprezzanti, insultanti, impermeabili al dialogo, e il pronto intervento degli agenti di sicurezza, hanno evidenziato la distanza tra le istituzioni e una cittadinanza ridotta a sudditi. Immediatamente tacciati come violenti dai mass media, i manifestanti fanno correre le loro azioni su internet, intercettando notevole credito nell’opinione pubblica, anche per azioni illegali e risolute. Lo spazio sociale entro cui si muovono le forme più radicali di queste proteste cerca l’opacità dal controllo statale, si ritaglia spazi interstiziali, fuori dal monopolio della legalità e del mercato. Le zone parzialmente e temporaneamente autonome che si costituiscono sono spesso situazioni ibride, nel senso che accolgono un vasto e diversificato senso di insoddisfazione verso il prevalente che, nelle manifestazioni, si armonizza e/o esplode. È un’incipiente rete che comprende al suo interno una vasta diversità di preoccupazioni, stili di vita, tensioni etiche, storie personali, che riconosce obiettivi comuni, elaborati attraverso modalità decisionali orizzontali e polifoniche.

Nascono in questo contesto sociale nuove dinamiche di azione politica pubblica. Negli ultimi anni, si moltiplicano le manifestazioni di protesta al di fuori dei canali istituzionali. Si conferma la forza delle mobilitazioni a difesa del territorio: accanto ai NO TAV, si assiste a un proliferare di comitati cittadini a difesa della salute pubblica e dell’ambiente. Le proteste degli studenti hanno mostrato una radicalità, indipendenza e presa sociale che mancava da decenni. Si propagano i blocchi stradali, le manifestazioni non autorizzate e le proteste spontanee accomunate dall’autonomia rispetto a partiti e sindacati e dall’obiettivo di limitare il potere del sodalizio elitario politico-imprenditoriale-mediatico. La critica alle istituzioni interessa settori sempre più ampi e non prende necessariamente la forma dello scontro con gli addetti alla pacificazione forzata: in diversi contesti i toni accesi si coniugano a modalità assolutamente pacifiche, per esempio nel popolo viola o nella manifestazione nazionale primaverile per la dignità femminile. Due eventi capaci di attivare un’adesione ingente e inaspettata: entrambi denunciavano il ceto politico, i suoi comportamenti, la sua immoralità, le sue ipocrisie, la sua incapacità di rappresentare. A volte, come negli ultimi due esempi citati, le manifestazioni tendono a non rendersi conto che il problema è inerente alla delega politica piuttosto che a una particolare classe dirigente; più spesso, si adottano slogan che non possono essere fraintesi: «¡Que se vayan todos!».

Queste mobilitazioni sono di estremo interesse per il loro posizionamento rispetto alla questione democratica. Alla dimensione oppositiva nei confronti della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni si accompagnano pratiche di azione diretta e decisa (caratteristiche soprattutto delle mobilitazioni greche e nordafricane) e forme elaborate e coerenti di democrazia diretta (adottate dagli indignados del movimento 15M in Spagna, dalle occupazioni di piazze e parchi negli USA, dalla ormai pluriennale resistenza in Grecia). In molte mobilitazioni, la pratica della democrazia diretta è l’unica forma deliberativa legittima: l’assemblea pubblica, in piazze conquistate e autogestite, è il luogo della ricostituzione politica. Spesso questi movimenti si nutrono di una spiccata diversità di soggetti egualitari al loro interno (collettivi, associazioni, gruppi di lavoro nati nel movimento, piattaforme internet, assemblee di quartiere) che dinamicamente si frammentano e confluiscono in forme assembleari di più grande portata, fino a coinvolgere nel processo decisionale decine di migliaia di persone. Negli ultimi decenni non si erano viste manifestazioni così consistenti che rivendicassero e adoperassero forme autenticamente democratiche. È una scelta consapevole e ibrida: consapevole perché le forme gestionali delle assemblee (ampia distribuzione della parola, contingentamento dei tempi di intervento, rotazione delle cariche, tecniche di raggiungimento del consenso, attenzione alle reazioni dell’uditorio ai discorsi degli oratori) si nutrono di saperi solidi, sorti nella gestione pratica dei gruppi a gestione orizzontale; ibrida perché le prime sistematizzazioni, nella forma di documenti contenenti spiegazioni e consigli su come far funzionare un’assemblea, trovano ispirazione in una genealogia che comprende le comunità quacchere e Christiania, le assemblee zapatiste e il linguaggio dei segni.

La democrazia diretta è ora confinata alle deliberazioni delle mobilitazioni. Le decisioni cruciali per il funzionamento sociale rimangono nelle mani dell’intreccio di poche agenzie enormemente potenti che continuano a essere in grado di attivare meccanismi legislativi e finanziari, burocratici e repressivi, capaci di plasmare il mondo. Non si abbatte un sistema consolidato e potente come quello che ci domina in tempi brevi. La democrazia diretta per affermarsi come forma politica prevalente, e non solo come modalità di gestione delle mobilitazioni pubbliche, richiede una rivoluzione culturale, e quindi costanza e pazienza. La sfida del prossimo futuro è quindi trovare i modi più appropriati per progressivamente svuotare le istituzioni gerarchiche, raggirare la burocrazia, sabotare l’economia mercificante, evadere la legalizzazione pervasiva e, al contempo, costituire, negli spazi lasciati liberi dall’arretramento dei poteri istituzionali, un sistema retto sull’armoniosa diversità di forme organizzative orizzontali. Le forme autenticamente democratiche che stanno emergendo in circuiti sociali vari e distanti, ma convergenti per preoccupazioni e modalità, sono un inizio promettente.

Il testo che segue è stato scritto da Graeber per la raccolta di saggi Possibilities (AK Press, Oakland, 2007). Nel primo decennio del secolo l’autore ha acquisito una crescente notorietà grazie a importanti pubblicazioni e alla radicalità del posizionamento politico. Dopo un lavoro squisitamente teorico sul concetto di valore7, nel 2004 Graeber pubblica Frammenti di antropologia anarchica (elèuthera, Milano, 2006). Nel 2005 viene allontanato dall’università di Yale. La decisione dei membri anziani della sua facoltà crea scandalo perché il suo profilo di insegnante e di ricercatore non è in discussione: il mancato rinnovo del contratto appare motivato dalla volontà di censurarne l’attività politica e dalla sua difesa di una studentessa, anche lei politicamente impegnata e quindi soggetta alle attenzioni disciplinari degli organi accademici. In questi stessi anni Graeber diventa un protagonista delle riviste politiche e accademiche, proponendo un’irriverente critica dell’isterica e fuorviante rappresentazione dei manifestanti anti-globalizzazione statunitensi come violenti e pericolosi8; un’articolata descrizione del funzionamento dell’apparato repressivo nelle università americane9; una riflessione a tutto campo su globalizzazione e nuovi attivismi politici, al cuore dei quali starebbe – secondo Graeber – l’anarchia10. Nel 2009 pubblica Direct Action. An Ethnography (AK Press, Oakland), un’etnografia minuziosa del movimento anti-globalizzazione statunitense all’alba del secondo millennio.

Graeber sembra dotato di una certa capacità di preveggenza. Nelle pagine che seguono, scritte qualche anno fa, vengono preannunciate le forme dei movimenti che hanno incendiato i cuori e cominciato a dare un’incipiente forma organizzativa alla volontà popolare in diverse contesti europei, mediterranei e nordamericani. Graeber, non a caso, ha partecipato alla fase iniziale del movimento Occupy Wall Street e scritto articoli in difesa delle mobilitazioni1111. Al contempo, ha condotto una ricerca sul debito nel momento in cui è scoppiata la bolla finanziaria, basata sull’incapacità dei debitori di ripagare le rate ai tassi richiesti, pubblicando Debito. I primi 5.000 anni (il Saggiatore, Milano, 2012) nel momento in cui il debito pubblico in Europa diventa il grimaldello ideologico per imporre nuove, e più dure, misure neoliberiste nella forma di ulteriori tasse sulle fasce più povere, della progressiva perdita di potere di acquisto dei salari, dell’ennesimo attacco ai servizi sociali, alle risorse pubbliche, ai minimi diritti rimasti nei contratti lavorativi.

Nel testo che segue, Graeber intreccia la decostruzione della nozione di Occidente con la storia della democrazia, intesa sia come teorizzazione intellettuale, sia come pratica organizzativa egualitaria, e offre una delle critiche più convincenti alla pretesa che sia esistita una civiltà occidentale, che questa sia stata la culla della democrazia e che le forme governative odierne siano denominabili democratiche. La narrazione denuncia la distanza che c’è tra la concezione contemporanea del termine democrazia, usato per istituzioni politiche gerarchiche fondate sulla delega elettorale, e le concezioni e pratiche orizzontali e partecipate che sono emerse in continuazione nella storia dell’umanità. Graeber scardina letture semplicistiche ed eurocentriche arricchendo la sua critica decostruttiva con una documentazione a tutto campo sulle apparizioni storiche della democrazia diretta, dalla Lega delle Sei Nazioni alle navi pirata nell’Atlantico settecentesco, dall’India classica alle società maya. L’autore, uno degli antropologi oggi più stimolanti, affronta queste tematiche proponendo analisi che appaiono scandalose nella loro formulazione iniziale per poi risultare convincenti, o perlomeno interessanti da vagliare, a fine libro. Nella tradizione più recente dei pensatori libertari nelle scienze umane, mira a spiazzare il lettore e a offrirgli una varietà di stimoli e proposte rivelatrici di un posizionamento politico che non genera assiomi, né chiede al lettore un’adesione acritica. Gli aneddoti e le storie di forme umane distanti mettono in crisi le credenze egemoniche e allargano il campo del pensabile. Quella che segue è una lettura complessa, ricca e arricchente, feconda.

Note alla prefazione


  1. Graeber D., «Anarchism, or The Revolutionary Movement of The Twenty-first Century», Znet, 6 gennaio 2004.

  2. Graeber tende a sorvolare in questo testo su una seconda caratteristica, imprescindibile a mio avviso, della strutturazione libertaria del potere: la contenuta invasività dell’influenza della collettività sulla vita dei singoli.

  3. Per una trattazione più organica della distribuzione egualitaria del potere, vedi Boni S., Culture e poteri. Un approccio antropologico, Milano, elèuthera, 2022 [2011], parte seconda.

  4. Scott J.C., Weapons of the Weak: Everyday Forms of Peasant Resistance, Westford, Yale University Press, 1985; Scott J.C., Il dominio e l’arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale [1990], Milano, elèuthera, 2021; Scott J.C., Lo sguardo dello Stato, Milano, elèuthera, 2019; Scott J.C., The Art of not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia, New Heaven, Yale University Press, 2009.

  5. Vengono private di potere effettivo anche quelle assemblee inventate recentemente dai politici, come trovate auto-pubblicitarie per cercare di frenare la crescente disillusione nei confronti dei rappresentanti eletti, quali Agenda 21 che avrebbero dovuto offrire spazio a una parvenza di partecipazione.

  6. Graeber D., Direct Action. An Ethnography, Edinburgh, AK Press, 2009, p. 203 (trad. it. parziale: Rivoluzione: istruzioni per l’uso, Milano, RCS Libri, 2012).

  7. Graeber D., Toward an Anthropological Theory of Value: the False Coin of Our Own Dreams, New York, Palgrave, 2001.

  8. Graeber D., «Lying in Wait», The Nation, 19 aprile 2004.

  9. Frank J., Without Cause: Yale Fires An Acclaimed Anarchist Scholar. An Interview with David Graeber, www.counterpunch.org, 13-15 maggio 2005.

  10. Graeber D., «The New Anarchists», New Left Review, n. 13, gennaio-febbraio 2002.

  11. Graeber D., With No Future Visible, Young Activists Have Few Options but to «Occupy Wall Street», www.alternet.org, 26 settembre 2011.