Carte irrequiete. La memoria dei movimenti introduzione
Libro
Carte irrequiete. La memoria dei movimenti
Valacchi, Pezzica
PROSSIMA USCITA
gio 09 ott 2025
Non possiamo utilizzare l’espressione «archivi di movimento» altrimenti che al plurale perché plurale, poliedrica, anche casuale, è stata la modalità in cui si sono formati.
Leonardo Musci, Movimenti e archivi. Punti fermi e questioni aperte
Dialogo al di là dell’archivio
F: A cosa pensi se ti dico archivio? Io gli archivi, credimi, non li riconosco più. Ormai tutto è archivio e tutti, anche senza averne titolo e competenza, parlano di archivio. Guardare quello che succede dal punto di vista della disciplina che abbiamo imparato e ancora insegniamo mi sembra sempre più difficile. È come se un mondo stesse andando in frantumi mentre nessuno si prende la briga di tenerlo insieme o, almeno di raccogliere i cocci. La prepotenza digitale sconvolge le tassonomie ed espone al pubblico ludibrio i tentativi di contenere l’informazione dentro schemi antichi e troppo rigidi. Le politiche della memoria balbettano e quando tentano di palesarsi non sono altro che timidi tentativi di restaurare antichi regimi che non esistono più. Di fronte a quello che vediamo servono coraggio e responsabilità. Il coraggio di ammettere che i paradigmi sono usurati e la responsabilità di contribuire a crearne di nuovi, consapevoli che l’archivistica da sola non va da nessuna parte.
L: Sai, sono d’accordo con quello che dici. Fermiamoci al Novecento. L’arcipelago archivistico è cresciuto enormemente e sempre più si trovano archivi in giro per il mondo. Per la verità basta anche solo guardare a ciò che accade nel nostro paese. E si pensa di imbrigliarli? Di costringerli a vivere una vita omologata? No, credo che si debba procedere a una liberazione degli archivi. Non fraintendermi però. Non voglio certo il caos. Élisée Reclus, grande geografo dell’Ottocento, l’iniziatore della geografia umana, era un anarchico e sua è una frase famosa: «L’anarchia è la più alta espressione dell’ordine». Non dico che si debba essere pienamente d’accordo con Reclus, ma la frase ci dovrebbe aiutare a capire che non necessariamente anarchè sia negativo e archè positivo, sempre. Lo sai bene che ne ho già scritto di questo…
Introduzione
Potrei ma non voglio fidarmi di te / Io non ti conosco e in fondo non c’è / In quello che dici qualcosa che pensi / Sei solo la copia di mille riassunti.
Samuele Bersani, Giudizi universali1
Gli archivi non sono veri. E non sono neppure specchi fedeli del mondo. Possono al massimo risultare autentici, ma non sono contenitori di inossidabili verità astratte, perché sono il risultato di una produzione dentro alla quale si mischiano tante componenti, non necessariamente documentarie, e devono fare i conti con una conservazione più movimentata di quanto si possa pensare.
Gli archivi, al loro primo vagito, sono immanenze documentarie giustificate solo e soltanto dall’uso che ci si propone di farne nell’immediato. Non si producono quasi mai documenti a futura memoria e, quando lo si fa, si tratta di deviazioni piuttosto sospette, ai confini del dossieraggio. La produzione di un archivio è da subito una chiave di lettura/scrittura della memoria, una possibilità tra le molte di dare corpo alla realtà per poterla prima certificare e poi raccontare. Talvolta, come nel caso dei movimenti, all’atto della produzione la consapevolezza della costruzione di una sedimentazione organizzata può addirittura non esserci. I documenti prendono forma per rispondere a esigenze forti ed estemporanee e comunque non avvertite come elementi di un processo organico. In questi casi il senso archivistico va cercato a posteriori, quando si tenta di ricomporre un’univocità che alla nascita non c’è o non è percepita.
Essere o meno consapevoli di produrre documenti destinati a una sequenzialità organica significa avere o non avere la consapevolezza dell’archivio come strumento e questo fa tutta la differenza del mondo nel trattamento e nel destino di quegli stessi documenti. Significa che per riempire di senso certi grovigli a scartamento variabile può rendersi necessaria un’identificazione postuma che coinvolga la sensibilità e i ricordi del produttore, nonché un lavoro archivistico particolarmente delicato.
Si aggiunga che per sua natura qualsiasi archivio è polifunzionale e cambia più volte destinazione d’uso nel corso del ciclo vitale. Di conseguenza, un’innata trasversalità informativa ne determina vari stadi di esistenza e ne rimodula ogni volta i contenuti, senza reale controllo da parte dei mediatori esterni, destinati a subire l’archivio mentre tentano di governarlo.
Gli archivi di cui ci occuperemo, e soprattutto i loro soggetti produttori, scontano una forte crisi di identità, perché più di altri avvertono il canone omologatore come un’intollerabile imposizione e più di altri tendono a fuggire dalla ribalta conservativa, restando in uno stato indefinibile di costante sobbollimento informativo che non ne sprigiona del tutto, e quasi mai, l’energia.
Nel passaggio dalle molte e diversificate ragioni della produzione a quelle altrettanto ampie della conservazione, un fondo archivistico matura qualità di testimonianza che in origine erano solo abbozzate e diventa un tassello di più ampi mosaici di memoria individuale e collettiva. Se la storia della produzione è ricostruzione ad ampio raggio del particolare presente in cui l’archivio si è formato, quella della conservazione è un percorso molto più immaginifico e faticoso. Dalle res gestae alla loro storicizzazione vera o presunta succedono molte cose, non tutte prevedibili e non tutte in armonia con lo scivolare quieto del tempo. Il compito della funzione archivistica, almeno in teoria, è quello di tenere sotto controllo la vitalità inesauribile dell’archivio, riportandolo a schemi che, per quanto artificiali, ci aiutino a usarlo e a capirlo.
Se questi schemi non ci sono ne vanno costruiti di nuovi, senza particolari remore e senza timore di eresia. L’archivio, infatti, è in ultima analisi un ricordo narrativo. Per quanto lo si costruisca con tecniche raffinate e lo si valuti con il dovuto rigore scientifico, resta intriso di inevitabile soggettività. L’archivio, e soprattutto l’archivio storico, più o meno volontariamente e più o meno consapevolmente, è una rappresentazione formalizzata. È frutto di una spontaneità sub iudice, molto spesso vigilata dagli interessi di chi lo genera.
La mediazione archivistica, per tutte queste ragioni, ha prima di tutto il compito di proteggere gli utenti da inganni documentari sempre in agguato, attingendo a tutte le sue tecniche e a tutti i suoi strumenti. Lo fa soprattutto costruendo contesti, ma nel nostro caso il concetto di contesto, portato alle estreme conseguenze, non è più semplice ricostruzione di alcune entità informative (produttore, conservatore e cose simili).
Il contesto nell’azione documentaria dei movimenti si spinge verso la psicologia (potremmo dire l’antropologia?) della descrizione e incrocia le tortuose vicende della reale irrequietezza della produzione e della conservazione. La fase di produzione e quella di conservazione, infatti, non sono separate e scandite nettamente, ma hanno in comune un carattere militante esplicito (dalla militanza culturale-storica a quella sociale-politica vera e propria).
In questi casi, allora, il mediatore può assumere un ruolo maieutico che va oltre i suoi compiti tradizionali di giunto cardanico tra l’archivio e l’utente. Può, in altre parole, farsi strumento di ricomposizione del dissidio tra il documentato e il non documentato e, soprattutto, aiutare a rivedere il rapporto tra l’indocumentabile e il documentabile.
Nelle pagine che seguono cercheremo di mettere un minimo di ordine in questa matassa, per certi versi fisiologicamente inestricabile, cercando tracce di archivio dentro a una documentazione refrattaria a farsi catturare dalle logiche della conservazione «ufficiale», organizzata e finalizzata a priori come essa è. Per molti versi, infatti, gli archivi dei movimenti orbitano in una dimensione alternativa ai canoni del modello conservativo «santificato» da una normativa che i loro produttori tendono a ignorare o ad avvertire come un’imposizione esogena.
Conservare gli archivi significa anche, a un certo punto, affidarli alle cure di soggetti deputati a farlo. In archivi più docili rispetto al modello conservativo questa affidabilità è garantita, quando non imposta, dall’autorevolezza conferita ai conservatori dalle norme e da prassi collaudate. In molti dei casi con cui ci confronteremo questa fiducia è invece il risultato di valutazioni più flessibili, che mettono in gioco fattori politici e psicologici capaci di complicare sensibilmente il percorso conservativo.
Quando si affronta concretamente il problema del ruolo degli archivi dei movimenti ci si pone in un’ottica particolare e si viaggia sempre in bilico sul crinale che separa il valore pubblico di questa memoria dalla percezione politica di taglio antagonista che ne hanno i rispettivi soggetti produttori2. Ci si pone, cioè, l’obiettivo di andare oltre quel «vorrei ma non posso» che alla fine penalizza la conoscenza e il valore culturale politico e sociale di cui queste carte irrequiete sono squisita testimonianza. Con la consapevolezza che muoversi in direzione ostinata e contraria, soprattutto in un’epoca sostanzialmente atona come la nostra, è una strategia cui va riconosciuto tutto il suo valore.
Il punto non è omologare gli archivi dei movimenti a un’archivistica ufficiale che peraltro fa acqua da tutte le parti, ma capire in che modo l’archivistica possa mettersi al servizio di questo patrimonio di irrinunciabile rilevanza.
Una tassonomia dell’insubordinazione, insomma.
Note all’Introduzione
1. Samuele Bersani, Giudizi universali, BMG Ricordi, 1997
2. Quanto alla percezione politica e alle sue concrete manifestazioni è evidente che uno dei naturali controcanti dei movimenti è quello degli archivi dei partiti politici, tema di enorme vastità e complessità che qui si è deciso di non affrontare, ma che può avere un suo ruolo comparativo anche ai nostri fini. Su questo si vedano tra gli altri Linda Giuva, Gli archivi storici dei partiti politici, in Claudio Pavone (a cura di), Storia d’Italia nel secolo Ventesimo. Strumenti e fonti, vol. 3, Le fonti documentarie, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Dipartimento per i beni archivistici e librari, Direzione generale per gli archivi, Roma, 2006, pp. 401-430; Pellegrino Gerardo Nicolosi, Gli archivi dei partiti politici tra incertezza normativa e autoreferenzialità, in Simonetta Bartolini, Danilo Breschi, Andrea Ungari (a cura di), La storia, una vita. Scritti in onore di Giuseppe Parlato, Luni, Milano, 2022, pp. 229-248.