Prefazione di Paul Goodman a Memorie di un rivoluzionario (1968)
Libro
Memorie di un rivoluzionario
Kropotkin
PROSSIMA USCITA
mar 14 ott 2025
Prefazione
(1968)
di Paul Goodman
traduzione di Giacomo Borella e Daniella Engel
Fonte: Paul Goodman, «prefazione» in Pëtr Kropotkin, Memoirs of a Revolutionist, Horizon Press, New York, 1968.
La nuova attenzione verso Kropotkin è parte di un più ampio risveglio di interesse per l’azione e il pensiero anarchici, tanto nei paesi che si ispirano alla cosiddetta «iniziativa privata» quanto in quelli di orientamento socialista. Dopotutto, Bakunin, Kropotkin e gli altri anarchici, avevano ragione: i veri nemici si sono dimostrati essere lo Stato (la cui ragione di salute è la guerra), l’organizzazione sovracentralizzata, la personalità autoritaria. Si fa appello a strutture sociali organizzate dal basso, spontaneità e mutuo appoggio, azione diretta e autoproduzione, educazione all’autonomia e mobilitazione per la libertà. I marxisti ora parlano molto di alienazione e anche i liberal non sono da meno, soprattutto di «alienazione giovanile», ma di questa gli anarchici hanno sempre parlato, senza fronzoli neohegeliani: la conoscevano attraverso il sentire umano e la semplice osservazione. Studiando attentamente la storia sociale delle comunità rurali e delle città medievali, Kropotkin è arrivato alla conclusione che gli uomini non avevano bisogno di qualcuno che li comandasse.
Ma essendo il genere umano ciò che era, era stato probabilmente necessario sperimentare l’ovvia e astratta ricetta della pianificazione centralizzata «razionale» e finire per farne un’indigestione. Kant ha detto che gli uomini provano sempre tutte le strade sbagliate prima di scegliere, per forza, quella giusta. Scrivendo nel 1898, Kropotkin era decisamente fuori strada con la sua sprezzante valutazione delle prospettive del socialismo marxista: per tutta la prima metà di questo secolo sembrava che la tendenza verso l’ingegneria sociale universale e il caos generale fosse davvero irresistibile. Ma il lato recalcitrante della natura umana, che Kropotkin tanto ammirava, ha cominciato a riaffermarsi con ostinazione: niente ingegneria sociale universale, quindi (probabilmente ci resterà il caos generale). La burocrazia e stupidità delle Grandi Potenze non sono oggi peggiori di quando Kropotkin ha scritto queste Memorie, ma la loro capacità tecnica e organizzativa di combinare guai è immensamente aumentata. La pazienza è una delle virtù fondamentali dei moralisti politici, ma i filosofi del passato non hanno dovuto fare i conti con bombe atomiche e compagnia bella.
I giovani radicali che oggi si avvicinano a Memorie di un rivoluzionario, saranno sorpresi nel trovare così tante somiglianze con i loro pari del 1875. Kropotkin descrive il divario generazionale in modo toccante: tutti i «fratelli maggiori» erano stati, come diremmo noi, cooptati. Coloro che hanno lavorato tra i diseredati di Harlem, Roxbury o Detroit riconosceranno la parola d’ordine dei nichilisti V narod! – andate tra la gente, lì dove essa è e stando alle sue condizioni – e ne riconosceranno anche le relative ambiguità.
Alcuni giovani si irritano per queste somiglianze e non vogliono sentirne parlare: è un articolo di fede tra i moderni [in italiano nell’originale] – così essi si autodefinivano nel 1500 – il fatto che non sia mai esistito nulla di simile a loro. Ma così sono i giovani vivaci in ogni età prerivoluzionaria, quando chi è al potere giunge a mostrare la sua bancarotta morale e incompetenza amministrativa. Sono spuntati fuori prima della Riforma, come Sturm und Drang prima della Rivoluzione Francese, come narodniki in Russia, e oggi da noi come hippies e New Left. E non è solo un eterno ritorno: i rivolgimenti del passato hanno sortito qualcosa di utile, anche se certamente noi dobbiamo fare di meglio.
Anche l’accesa critica cui Kropotkin sottopone il sistema di educazione formale coglie nel segno. Il dilemma che egli risolve con tagliente osservazione empirica è esattamente quello che tormenta i nostri più prestigiosi teorici della pedagogia. Alcuni sostengono che si può insegnare qualsiasi proposizione a chiunque, mentre altri insistono che è necessaria una precedente e lunga preparazione delle abitudini intellettuali, che coloro che sono «culturalmente svantaggiati» non hanno. Kropotkin dice: «Nella mia esperienza, se si parla in modo semplice e a partire da fatti reali, non esiste teoria nell’intero mondo delle scienze sociali e naturali che non possa essere trasmessa a un contadino di media intelligenza della Grande Russia (come peraltro di ogni nazionalità), a condizione che chi parla padroneggi davvero quei concetti» (Pëtr Kropotkin, Memorie di un rivoluzionario, elèuthera, Milano, 2025, pp. 120-121). Quale incredibile rivoluzione implicherebbe questa piccola clausola nel nostro sistema scolastico!
Ma a mio parere la lezione principale che Kropotkin può offrire ai giovani è come un autentico professionista diviene un rivoluzionario. Oggi, molti tra i migliori studenti credono che essere un professionista significhi di per sé essere un crumiro del Sistema, e che essere uno scienziato o un artista sia qualcosa di frivolo, quando c’è così tanta ingiustizia e sofferenza nel mondo. Kropotkin era egli stesso un archetipico scienziato del diciannovesimo secolo: un avventuriero solitario che cooperava calorosamente con i suoi colleghi all’interno delle loro associazioni volontarie, scrupolosamente fedele al metodo scientifico, che arrossiva di orgoglio quando Madre Natura a volte tirava fuori una risposta proprio per lui. Di certo non vi avrebbe potuto rinunciare: era il suo modo di stare al mondo. C’è qualcosa di pateticamente esilarante nell’aneddoto in cui, mentre gli altri agitatori potevano andarsene dalla città e sfuggire alla polizia, lui doveva restare per esporre alla Società Geologica le sue tesi sulla calotta di ghiaccio: aveva avuto tutto il tempo di scriverle, in prigione. Ad ogni modo, la sua esperienza testimoniava che anche il solo tentativo di dedicarsi alla propria professione con coraggio e integrità avrebbe implicato cambiamenti rivoluzionari nella società. L’episodio che riguarda i suoi sforzi di fare qualcosa per l’agronomia e l’economia dei cosacchi in Siberia, rappresenta un punto critico:
“Al ritorno dall’Ussuri con il mio rapporto, ricevetti congratulazioni da ogni parte e ottenni una promozione oltre a vari riconoscimenti. Tutte le misure che avevo raccomandato furono accolte, e si stanziarono fondi speciali. […] In Siberia, i vertici dell’amministrazione erano animati dalle migliori intenzioni, e posso solo ripetere che, tutto considerato, erano di gran lunga più bravi, più illuminati e più interessati al benessere del paese dei loro omologhi in qualsiasi altra provincia della Russia. Ma si trattava pur sempre di burocrati: erano il ramo di un albero le cui radici affondavano a San Pietroburgo, e questo era più che sufficiente a paralizzarne la volontà, a ostacolare e uccidere ogni iniziativa locale volta alla vita e al progresso. […] Io cercai di fare il possibile […] solo per rendermi conto dell’assoluta inutilità dei miei sforzi (Kropotkin, op. cit., pp. 229-230).”
E fu così che diventò anarchico.
Potremmo dire che il nuovo anarchismo è in una fase bakuninista: l’enfasi è sull’agitazione, l’azione diretta, a volte gli interventi di disturbo per fermare operazioni dannose. Kropotkin, al suo meglio, apparteneva a un anarchismo più maturo, che faceva agitazione rivoluzionaria come lavoro quotidiano, ma già «discuteva» (così egli si esprimeva) le possibilità di una tecnologia, un’ecologia, una pedagogia, una vita rurale e un’organizzazione industriale anarchiche. è proprio su questo che i socialisti scientifici hanno pensato pochissimo e ottenuto niente, malgrado i successi sul versante dell’agitazione. Hanno solo portato avanti l’organizzazione del vecchio ordine, a volte un po’ meglio, a volte molto peggio. I nostri giovani anarchici fanno raramente simili «discussioni». Sentono, come Bazarov, la necessità di un nuovo stile di vita, ma è difficile capire quale ne sia il contenuto, al di là delle relazioni interpersonali. è come se pensassero che l’alta tecnologia, una volta sabotata, possa andare avanti da sé, mentre loro vivono come indiani nelle riserve, però con motociclette e ottimi impianti stereo, a volte un passaggio in autostop per andare a un raduno al Golden Gate Park. La generazione di Kropotkin aveva una nozione di libertà più interessante.
Tuttavia Memorie di un rivoluzionario è principalmente un’opera letteraria, che tratta solo incidentalmente del pensiero anarchico e della sua storia. Tranne che per l’ultima sezione – che Kropotkin ha aggiunto più tardi e si occupa di fatti quasi contemporanei, come una cronaca – il libro è un’opera di lunga riflessione e immaginazione letteraria, una serie di immagini vividamente singolari e significativamente tipiche, dove la poesia è più filosofica della storia. Gli episodi sono scelti con grande senso dell’economia per restituire ciò che è essenziale: «un uomo e il suo tempo». Tutto corrisponde a ciò che l’eroe ha direttamente sperimentato, come in una biografia, ma lui stesso svanisce quasi completamente in una sequenza di reazioni a importanti questioni sociali: servitù e nobiltà in Russia, vita rurale e vita urbana, l’accademia dei paggi e la corte dello zar, le avventure nella natura selvaggia e il mondo delle scienze, la fuga verso Occidente. è uno svolgimento molto sapiente: la vita di un individuo come pura azione sociale. Al contempo, è indubbiamente ingenuo. Il suo gusto assomiglia a quello di un rametto di menta piperita o di un gambo di rabarbaro in primavera.
L’anarchia è la filosofia politica degli artigiani esperti e degli agricoltori, che non hanno bisogno di un capo; degli uomini che fanno mestieri pericolosi, come i minatori, i boscaioli o gli esploratori, che imparano a contare su sé stessi e gli uni sugli altri; degli aristocratici, che possono permettersi di essere idealisti e sanno cosa c’è dietro l’esibizione del potere; degli artisti e degli scienziati, che rispettano i fatti, ma non hanno timore di inventare qualcosa di testa loro. Kropotkin era tutto questo insieme.
La psicanalisi del testo, la sua motivazione profonda, è ovvia in maniera quasi imbarazzante. Se Kropotkin avesse conosciuto Freud non avrebbe mai potuto scriverlo in questo modo, e sarebbe stato un peccato. La bellissima mamma muore quando il nostro eroe è un bambino piccolo. Il papà, di pasta più grezza, prende un’altra moglie, un tipo freddo, che cerca di cancellare tutte le tracce del passato paradisiaco. Solo i servi cospirano nel mantenere vivo l’affettuoso sentimento della mamma. Il ragazzo è messo sotto pressione per diventare un guerriero come il papà, ma aspetta il suo momento, accumula esperienze e poi prende la sua strada, colpendo giusto il principio di autorità paterna: lo Stato, lo zar stesso. Ciò che è notevole in questa storia, è che Kropotkin, dotato di intelletto, bellezza giovanile, denaro e fortuna, abiura ogni risentimento e invidia, e cerca la riconciliazione. Nel libro ciò avviene in modo quasi comico, nelle descrizioni di monsieur Poulain, il pedante precettore ingaggiato dal papà dopo il secondo matrimonio. Il passaggio inizia con il racconto delle lezioni autoritarie e delle punizioni con la verga, ma improvvisamente il bambino viene messo in salvo dalla sorella e l’autore subito si placa: «Una volta espletati i suoi faticosi compiti di pedagogo, monsieur Poulain diventava un’altra persona: un allegro compagno invece di un orribile precettore» (Kropotkin, op. cit., p. 30). Da quel punto in avanti, e siamo a pagina trenta, non c’è una sola traccia di rancore verso nessuno nelle Memorie di Kropotkin. E quattrocento pagine dopo, egli spiega la sua posizione nel ruolo di direttore di un periodico rivoluzionario:
“I giornali socialisti hanno la tendenza a ridursi alla cronaca desolante delle condizioni esistenti. Parlano dell’oppressione dei lavoratori nelle miniere, nelle fabbriche e nei campi; descrivono a tinte fosche la miseria e le sofferenze degli operai durante gli scioperi; insistono sulla loro impotenza nella lotta contro i padroni. Questa sequela di sforzi disperati, riferiti in ogni dettaglio, esercita un effetto estremamente deprimente sui lettori. […] Già allora, io ritenevo che un giornale rivoluzionario dovesse, al contrario, segnalare soprattutto tutti i sintomi che annunciano l’imminenza di una nuova era, la germinazione di nuove forme di vita sociale, la rivolta crescente contro istituzioni antiquate. Questi sintomi vanno identificati, indicati nei loro collegamenti interni e messi in relazione reciproca, così da dimostrare alle menti intimorite delle masse il sostegno invisibile e spesso inconsapevole che le idee progressiste trovano ovunque quando in una società si verifica una rinascita del pensiero. […] È la speranza, non la disperazione, a rendere vittoriose le rivoluzioni (Kropotkin, op. cit., pp. 444-445).”
In linea di massima, questo è vero. Per andare avanti bisogna avere sete di paradiso. Il solo divincolarsi da una trappola non produce un impegno durevole. L’atto di vendicarsi, o il fatto che gli oppressi prendano il posto dei potenti, cambia poco. Ma naturalmente questo è il punto di vista di un aristocratico naturale, che suppone che tutti gli uomini siano potenzialmente aristocratici.
C’è una curiosa dottrina della volontà in Kropotkin, paradossale per un filosofo così consapevole delle forze biologiche, sociali e storiche. è un tipo di volontà molto meno arbitraria ed «esistenziale» di quella che troviamo in Bakunin o Stirner, ma è certamente più personale e psicologica di quanto il determinismo storico avrebbe concesso. è paradossale: a mio parere, riguarda semplicemente il modo in cui la realtà si presenta alle persone energiche e intraprendenti.
Senza dubbio, la vigorosa oggettività di queste Memorie è protetta da una certa dose di repressione. La reticenza sessuale è straordinaria, molto oltre gli standard (pubblici) vittoriani. Possiamo registrare un commento di disapprovazione per i giochi e divertimenti all’accademia dei paggi, e una critica ad alcune osservazioni riguardanti le donne che Michail (Bakunin) avrebbe contestato. E questo è tutto. A p. 450 ci parla improvvisamente di «mia moglie», che in precedenza non era mai stata menzionata. C’è un silenzio assoluto a proposito delle sue credenze religiose, della chiesa organizzata o della religione dei servi. I suoi riferimenti letterari rivelano la stessa diffidenza verso le esperienze irrazionali: egli loda il classico Turgenev e il satirico Gončarov, ma c’è solo una citazione di sfuggita per Tolstoj e niente del tutto per Dostoevskij. A parte i cavalli, necessari per viaggiare, non ci sono animali, sebbene parli di loro in modo amorevole e ammirato nel Mutuo appoggio, dove ci sono ragioni politiche e scientifiche per farlo. Anche se tutto è vivace e intenso, l’unico passaggio che non è attivo e oggettivo, ma passionale, è il terribile grido che risuona nella Fortezza dove Kropotkin è rinchiuso e come abbandonato. Penso che John Dewey sia il solo moralista di pari forza intellettuale a essere letterariamente altrettanto evasivo nella rivelazione di sé, pur essendo allo stesso tempo completamente aperto. Sono i vantaggi del pragmatismo.
Al contrario, Kropotkin ha una ossessiva brama per l’elogio, per avere qualcosa da elogiare. Si può sperare che la sensatezza del genere umano sia un’ipotesi che si dimostra da sé. Così egli elenca i suoi splendidi amici ed enumera le loro virtù e imprese.
Per un americano – sto scrivendo nell’estate del 1968 – le frasi sporadiche nelle quali Kropotkin si riferisce agli Stati Uniti assumono una particolare intensità. Dà per scontato che siamo la libera gente comune in cui lui crede (avevamo da poco liberato i nostri servi). Cita il sogno felice degli Stati Uniti della Siberia, che presumibilmente avrebbero dovuto federarsi con noi. E fa notare che le comunità dissidenti pacifiste dei Duchobory trovano «un caloroso supporto negli Stati Uniti».